– Carlo Melato | 5 novembre 2025

Riccardo Muti con la sua Accademia pensa al futuro. «L’opera è vittima di bieche “tradizioni”, rispettare il compositore è sacro. Agli stranieri dico: imparate l’italiano, i doppi sensi dei libretti sono cruciali».

Ac asa Muti anche il presepe è un’orchestra. Facendosi largo tra pastori, fornai e lavandaie, una variopinta compagnia di suonatori ha conquistato il suo posto in scena. «Guardi questi musicisti come sono belli», esclama ammirato il leggendario direttore, «quelli al buio invece sono dei disgraziati». L’occhio, inizialmente attratto dalla luce della Sacra famiglia, si sposta verso destra, dove dominano le tenebre. «Il mondo del bene e il mondo del male», indica il Maestro. Il versante sul quale la notte regna ricorda il finale del Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, un istante dopo che il libertino è precipitato all’inferno per mano del «convitato di pietra». Tutto è oscurità e sgomento. «La parte più terribile di quella scena non sono le fiamme e i demoni, ma quando il bagliore luciferino del dissoluto si spegne: è in quel momento di pace apparente che i personaggi che gli ruotavano attorno si accorgono di essere smarriti». Prima di accomodarci in salotto, mentre il sole del mattino accende i colori di Ravenna, Riccardo Muti ci mostra il pezzo fondamentale del suo imponente presepe napoletano. «Lui si chiama Benino e dorme serenamente. La meraviglia che abbiamo davanti è frutto del sogno che sta facendo».

A proposito di visioni, la prossima edizione della Muti Opera Academy è vicina (dal 19 al 30 novembre nella milanese Fondazione Prada) . Come le è venuto in mente di fondare una scuola d’eccellenza che girasse il mondo per insegnare l’Opera italiana ai giovani direttori d’orchestra?
«Per risponderle devo riandare con la memoria alla fine degli anni Sessanta, quando mi preparavo a dirigere I masnadieri di Giuseppe Verdi al Maggio fiorentino. Scandagliavo gli archivi alla ricerca delle partiture dei miei predecessori e trovavo fogli impolverati, tenuti insieme da graffette arrugginite. Analizzandoli rimanevo senza parole davanti alla miriade di aggiustamenti, tagli e manipolazioni. Addirittura acuti aggiunti là dove l’autore non li aveva previsti. Sa cosa mi ritrovavo tra le mani?».

Il passato?
«No, quella che veniva erroneamente chiamata “tradizione”. Si avverava così la profezia di un gigante della direzione come Wilhelm Furtwàngler: “La tradizione è il triste ricordo dell’ultima cattiva esecuzione”. Davanti ai continui oltraggi e al massacro costante dell’Opera italiana decisi che avrei seguito un’altra strada: tentare sempre di comprendere e rispettare la volontà del compositore, non le fantasie di questo o di quell’interprete. Qualcuno non ha gradito».

A chi si riferisce?
«Per contestare una mia rappresentazione al Teatro alla Scala di Milano, un tale che si credeva “esperto di musica” arrivò a dire: “Senza il do di petto (nella cabaletta Di quella pira, ndr) non è Il trovatore“. Peccato che, come tutti sanno tranne il giullare in questione, Verdi non l’abbia mai scritto. Eravamo all’apice dell’assurdo: chi eseguiva solo ciò che era stato concepito dall’artista veniva accusato di tradimento. Ma c’è una frase del grande Maestro che chiude la partita: “Esiste un solo creatore, il compositore”».

Bastano le indicazioni che il Cigno di Busseto ci ha lasciato per essere certi di esaudire i suoi desideri?
«Non penso di avere la verità in tasca. Nessuno ce l’ha, soprattutto nel campo della musica. Tra una nota e l’altra, come diceva Mozart, c’è l’infinito. Detto questo, mi sono state donate delle indicazioni preziose che sui libri non si trovano».

La sfida è trasferirle ai giovani?
«Devo farlo. Ho avuto il privilegio di avere come insegnante Antonino Votto. Nella Scala degli anni Venti era il più grande assistente di Arturo Toscanini, che a sua volta aveva conosciuto Verdi suonando il violoncello nella prima assoluta dell’Otello (1887, ndr). Sono orgogliosamente figlio della scuola italiana e il suo patrimonio non deve andare perso».

Che cosa la colpisce dei giovani che riescono a superare le selezioni?
«Nonostante i diplomi con il massimo dei voti nei Conservatori più blasonati del mondo… di Opera non sanno nulla. Non sono in grado di preparare un cantante, né dal punto di vista musicale, né tantomeno drammaturgico. E i due piani non si possono scindere. Lo sa che anche Giorgio Strehler sognava?».

Che cosa?
«La condivisione totale tra i due punti di vista. “L’ideale”, diceva, “sarebbe che il regista guidasse l’orchestra, cedendo il suo posto al direttore”».

Davanti al declino che stava descrivendo, qual è il primo comandamento che Riccardo Muti dà alle giovani bacchette di ogni continente?
«Imparate l’italiano!».

Addirittura?
«Non dico alla perfezione, ma una buona conoscenza della lingua è fondamentale. Nel nostro repertorio il rapporto tra musica e testo è verticale».

Cosa intende?
«Non ci si può accontentare di un generico “piano” o “forte”. Occorre ogni volta trovare il suono che sappia vivificare quella determinata parola. In altri contesti queste difficoltà non si incontrano perché prevale il mare magnum orchestrale».

Si riferisce a Wagner?
«Esattamente. Poi c’è un’altra ragione, forse più banale: gli stranieri che si affidano alle traduzioni vanno incontro a brutte figure».

Un esempio?
«Durante le prove del Don Pasquale di Gaetano Donizetti, al mio debutto al Festival di Salisburgo (1971, ndr), vidi il soprano mimare con le mani le zanne della tigre mentre cantava: “Mi volete fiera?”. Dopo un attimo di smarrimento dovetti spiegare al regista cecoslovacco che nella nostra lingua quel termine poteva assumere significati molto diversi: fierezza, Fiera del Levante e bestia feroce non sono la stessa cosa. Poi c’è il tenia dei doppi sensi. Non coglierli sarebbe un delitto…».

«Batti, batti, o bel Masetto, la tua povera Zerlina…», per tornare al Don Giovanni, che sarà oggetto delle prove milanesi.
«Rilancio con “Il mio fallo tardi vedo”… detto da due dame nel Così fan tutte (ride). Due esempi che fanno capire come mai, quando parlo di Opera italiana, includo anche i capolavori di Mozart realizzati con il librettista Lorenzo Da Ponte. Tornando al “fallo”, la traduzione inglese non può che cogliere solo il significato solenne: “Riconosco tardivamente il mio errore”. A qualsiasi nostro connazionale l’allusione invece non sfuggirebbe. Quando spiego a un francese o a un tedesco cosa intende il Duca di Mantova con l’espressione “le mie pene consolar” (nel Rigoletto, ndr) solitamente resta attonito».

E gli orientali come reagiscono?
«Non usi quel termine in America, altrimenti passa dei guai. Ora bisogna dire “asian”… (ride). Tornando alle cose serie, portare l’Academy in Cina e Giappone è stato fantastico. Là le orchestre sono vergini, i musicisti e i cantanti hanno occhi di fanciullo».

In che senso?
«Non c’è traccia di quelle bieche tradizioni di cui parlavo prima: il canto sguaiato, gli acuti tenuti all’infinito per mandare in estasi le masse, i bis e addirittura i tris che rompono l’unità drammatica della composizione. Mentre noi maltrattiamo il nostro patrimonio, in Oriente si può costruire da zero, senza dover estirpare nulla. Sembra di vedere un fiore che sboccia. Non solo, da quelle parti hanno capito che con la cultura si conquista il mondo. È più forte delle armi».

Ai ragazzi che incontrerà a Fondazione Prada spiegherà anche come sviluppare il proprio carisma?
«Impossibile, quello è un dono: c’è o non c’è e non dipende dall’età. I professori d’orchestra se ne accorgono subito, dal modo in cui sali sul podio la prima volta. Tanto è vero che le persone che verranno ad ascoltare potranno assistere a un fenomeno misterioso».

Quale?
«Chieda a cinque giovani direttori di dare l’attacco nello stesso punto e vedrà che, a distanza di pochi minuti, l’orchestra produrrà cinque suoni diversi».

E come se lo spiega?
«Gliel’ho detto, è un mistero insondabile. In quell’istante però c’è tutto: il carattere, la convinzione e l’autorevolezza di chi ha in mano la bacchetta. L’insieme di questi elementi torna indietro sotto forma di musica. Io posso insegnare la tecnica, il resto dipende da cosa sai, ma soprattutto da chi sei».

E il peccato mortale di un direttore alle prime armi qual è?
«A me hanno insegnato che alla base dev’esserci una preparazione solidissima. E poi serve compostezza: bisogna servire la musica, non sovrapporsi a essa. Il difetto principale che vedo di questi tempi è un atteggiamento estroverso, che sfiora il clownesco. Lo sa chi sarebbe stato oggi un ottimo collega?».

No.
«Totò».

Il «principe della risata»? E perché?
«C’è una scena indimenticabile nel quale dirige una banda. Se va a rivedere il suo gesto, che è ovviamente marionettistico, noterà che dal punto di vista funzionale è perfetto. Lui giocava, ma alcune delle sue mosse ai giorni nostri sarebbero considerate professionali» (ride).

La scelta di aprire a tutti le porte del cantiere è sua. Cosa vuole insegnare al pubblico?
«Che l’opera va vissuta nella sua interezza. Andare a teatro non può ridursi all’attesa di uno o due passaggi virtuosistici».

Chiudiamo con il capolavoro mozartiano. Qual è l’attenzione da avere dirigendo il Don Giovanni?
«È necessario capire che non si tratta di un’opera comica, è un “dramma giocoso”. Il difficile sta nel trovare l’equilibrio tra lo scherzo, che è diabolico, e la tragedia. L’ouverture in re minore, tonalità funebre del Requiem, è la chiave di tutto».

Come mai, anche se il «dissoluto» viene punito, nel finale i presunti buoni ne escono a pezzi?
«Don Giovanni, passando da fiore a fiore senza posa, porta una luce, anche se sinistra. Quando questa si esaurisce gli altri si accorgono di essere tristi e vuoti. Forse avevano trovato un senso grazie al male…».

Carlo Melato, Panorama, 5 novembre 2025

 


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