Photo credit to Wiener Philharmoniker/ Benedikt Dinkhauser
Intervista a Riccardo Muti: Giù le mani dalla Nona d’Europa
– Gregorio Moppi | May 3, 2024
DUECENTO anni fa, il 7 maggio, il pubblico viennese assisteva al debutto dell’ultima sinfonia di Ludwig van Beethoven, la Nona. Dirigeva il compositore, da tempo completamente sordo. Fin da subito quella partitura gigantesca per durata e numero di musicisti coinvolti – all’orchestra si sommano le voci di un coro e di quattro voci soliste per intonare i versi dell’Inno alla gioia di Friedrich Schiller – è stata riconosciuta come una delle creazioni più alte dell’ingegno umano. Assurta a simbolo di pace, di solidarietà universale. «Abbracciatevi moltitudini», dice infatti il testo di Schiller, «tutti gli uomini divengono fratelli». Perciò dalla metà degli anni 80 il tema dell’Inno alla gioia è stato adottato dall’Unione europea come proprio inno. Ora la Filarmonica di Vienna ne celebra l’anniversario e sul podio ha chiamato Riccardo Muti, che nella capitale austriaca la dirigerà per quattro volte da domani al 7 maggio. «Che i Wiener Philharmoniker abbiano scelto un italiano anziché un austriaco o un tedesco è per me motivo d’orgoglio», dichiara il maestro di ritorno dal Giappone dove ha proposto l’Aida di Verdi in forma di concerto. D’altronde va avanti da più di mezzo secolo, granitico, il suo sodalizio con i Wiener. Nei prossimi giorni saranno insieme anche per una tournée italiana con due altre sinfonie viennesi, la Haffner di Mozart e la Grande di Schubert: l’11 al Ravenna Festival, il 12 al Maggio fiorentino, il 13 al Teatro Petruzzelli di Bari.
Maestro, perché il compleanno della Nona induce festeggiamenti del genere? Dipende dal valore della partitura o dal suo contenuto ideale?
«È una vetta dell’intelletto umano, ecco tutto. Da avvicinare con l’esperienza dell’età. Herbert von Karajan sosteneva che un direttore, prima di poterne penetrare la dimensione mistica, deve farla almeno venti volte. Io l’ho diretta per la prima volta a quarantacinque anni, a Filadelfia. E sebbene ormai l’abbia diretta ben più di venti volte, a ogni ripresa mi pare di dover scalare l’Everest. Perciò non riesco a capire come già a vent’anni certi colleghi possano sentirsi pronti ad affrontarla».
Dove sono i tratti mistici in una sinfonia che sembra soprattutto parlare di uomini, agli uomini?
«Nel fatto che l’uomo vi si trova al cospetto dell’assoluto. Il senso profondo della Nona si intende appieno considerandola assieme alla Missa solemnis, altro vertice della produzione del tardo Beethoven, che ho trovato il coraggio di dirigere la prima volta soltanto al compimento dei miei ottant’anni, nell’estate 2021 e proprio con i Wiener. La Missa è espressione lacerante della disperazione dell’individuo. L’uomo vi implora la misericordia di Dio. La Nona mostra invece il volto laico di Beethoven rispetto al Creatore e al creato: un Dio aconfessionale che è Natura, e si traduce nell’idea di fratellanza sviluppata nel finale grazie al testo di Schiller».
Il momento che tutti gli ascoltatori attendono…
«È una pagina fortemente simbolica».
Ogni europeo la riconosce come parte della propria identità.
«Certo, anche se l’Inno alla gioia non riguarda soltanto l’Europa. Ha una dimensione universale. Pace, gioia, solidarietà devono appartenere all’umanità intera».
Allora com’è stato possibile che questa sinfonia sia diventata un’icona per i totalitarismi novecenteschi?
«Succede perché anche dell’arte più pura si può fare uso improprio. E la Nona, gonfiata, alterata, appesantita a dismisura da esecuzioni “ideologiche”, è divenuta strumento di propaganda per Hitler, per Stalin».
I momenti più alti nella Nona?
«Quelli in cui la musica oltrepassa la sfera dell’umano, avvicinandosi all’immagine kantiana del cielo stellato. Penso al primo e al terzo movimento, che ci proiettano nel cosmo. Sulla mia partitura, a proposito del primo, mi sono annotato dei versi del poeta russo Michail Lermontov che si adattano bene a questo inizio astrale: “Notte silente. Il deserto è in ascolto di Dio e la stella parla alla stella”. Poi c’è il terzo tempo, l’Adagio. Carlos Kleiber diceva che dovrebbe rimanere sulla carta tanto diviene inafferrabile, irraggiungibile, quando viene suonato».
Vero che i Wiener preservano in sé il codice genetico della prima esecuzione?
«In un certo senso sì, poiché quando l’orchestra fu fondata da Otto Nicolai attorno alla metà dell’Ottocento, vi entrarono due contrabbassisti che avevano suonato la Nona alla première diretta da Beethoven. E testimoniavano del disorientamento e del caos che si creò allora fra violoncelli e contrabbassi nell’ultimo tempo, all’avvio del grande recitativo che conduce all’Inno alla gioia. In effetti certe volte la scrittura beethoveniana è così visionaria da sfiorare l’irrealizzabile».
Alla Nona ha dedicato un film Alessandro Baricco, Lezione ventuno, in cui sostiene che qui Beethoven punti a essere piacione per risintonizzarsi sul gusto dei viennesi che lo stavano snobbando. Concorda?
«Il Beethoven della Nona e della Missa solemnis si pone al di là della storia. Né corteggia il presente. Casomai riformula in maniera strepitosa l’arte antica del contrappunto appresa studiando Bach e Hàndel».
Il bicentenario della Nona, partitura alla base dello spirito europeista, cade alla vigilia di elezioni che potrebbero ridisegnare il volto dell’Ue. Lei teme per il futuro dell’Europa?
«Molto. Ma non mi spaventano le elezioni. Temo la globalizzazione che, annacquando tutto, sta cancellando l’identità culturale del continente. Soprattutto l’Italia sta perdendo colpi, perché non si cura di sostenere e difendere i suoi ragazzi più in gamba, anche facendoli sentire orgogliosi di appartenere a una tradizione artistica e culturale senza eguali. Quanti ne ho visti nei vent’anni d’esistenza della mia orchestra Cherubini: giovani aperti al mondo che sono il nostro patrimonio più prezioso e che, se ben tirati su, contribuiranno a far fiorire la società di domani. Il che può accadere solo se non si dimentica il passato del Paese».
È una presa di posizione politica, la sua?
«Sì, ma apartitica, perché non ho mai parteggiato per alcun colore. Come affermava il grande Eduardo: “Sono un libero professionista che non si lega a nessuno”. Non è una dichiarazione qualunquista. Nel mio piccolo, infatti, cerco di migliorare la società e riconosco sempre quel che viene fatto di buono sia da sinistra sia da destra, intendendo l’una e l’altra come tesi e antitesi in un discorso pubblico fondato sul confronto democratico di idee che deve rifuggire gli estremismi ideologici da cui deriva la negazione della libertà».
Che cosa suggerirebbe, da artista, al ministro della Cultura?
«A Sangiuliano ho detto di persona ciò che da sempre ripeto ai ministri della Cultura e dell’Istruzione di tutti i governi di questo Paese: la città di Seul ha venti orchestre sinfoniche, mentre noi, patria della musica, in alcune regioni – come la Lucania, la Calabria, il Molise – non ne abbiamo nessuna. Però abbiamo caterve di Conservatori che sfornano diplomati destinati alla disoccupazione. Un’assurdità. Ma si potrebbe porvi rimedio istituendo orchestre, che di fatto sono micro società basate sull’ascolto reciproco, e aprendo e riaprendo i teatri, luoghi di comunicazione capaci di sradicare gli individui dal solipsismo a cui ci condannano i telefonini. Soprattutto bisogna ripartire dalla scuola: musica ovunque, 0 dall’infanzia alle superiori, con docenti a cui sia stato insegnato a insegnare, cioè che non si limitino a far canticchiare allo studente il Va’, pensiero, a mettergli in bocca strumentini inutili, a propinargli libri di testo che neanch’io capisco».
Comunque l’Italia si distingue ancora nel mondo come il Paese del belcanto.
«Di che belcanto si parla? Dei tenori sbracati che tengono l’acuto di Vincerò per dieci minuti? Non è cosa, questa, degna di un Paese che nella storia della musica non è secondo a nessuno. Serve davvero rammentare che abbiamo avuto compositori di musica vocale come Palestrina, Luca Marenzio, Claudio Monteverdi, eseguiti più all’estero che da noi e spesso, quindi, con pronunce terribili? Vantiamo Guido d’Arezzo che ha dato i nomi alle note, Arcangelo Corelli autore di concerti grossi, liutai come Stradivari, Amati e Guerrieri del Gesù. Piuttosto, si preferisce dare in pasto al popolo l’intrattenimento delle canzonette. Giusto che ci siano, ma non esistono sono quelle».
A proposito: Morgan la voleva coinvolgere in un ipotetico, rivoluzionario Sanremo. Lei non ha risposto all’invito…
«Avessi detto di sì, la gente avrebbe pensato che sono andato via di testa. E poi che cosa potrei farci all’Ariston? Dei festival di Sanremo non so nulla. Gli ultimi che ho ascoltato risalgono a Nilla Pizzi e a Domenico Modugno, delle cui canzoni adoro testo e musica».
Gregorio Moppi, il venerdì di Repubblica, May 3, 2024
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