Al Teatro Alighieri di Ravenna le ultime mosse della sesta Italian Opera Academy. Quest’anno al lavoro su Cavalleria rusticana e Pagliacci: le radici nobili del verismo.

The last days of the Italian Opera Academy at Teatro Alighieri in Ravenna, this year focused on Cavalleria rusticana and Pagliacci: the noble roots of verismo.

– Massimo Bernardini | July 29, 2020

Teatro Alighieri, Ravenna. Una mattina di luglio. Comincia una nuova giornata con Riccardo Muti e la sua Italian Opera Academy, dal 2015 il modo con cui il grande maestro ha deciso, nel pieno del suo lavoro intenso in ogni parte del mondo, fino allo stop obbligato di questi mesi, di cominciare a passare il testimone.

Di più: di passare un gusto, un mondo, una cultura musicale ricevuta, quella del teatro musicale italiano, ripulita di ogni incrostazione e liberata dagli orpelli di una “tradizione” esecutiva che è arrivata a velarne la grandezza. Stasera sarà lui a guidare l’Orchestra giovanile Cherubini in teatro, davanti al pubblico, in una serata di brani scelti da Cavalleria rusticana e Pagliacci, ma che gioia vederlo in queste giornate alle prese con giovani direttori e maestri collaboratori (Giovanni Conti 1996, Samuele Galeano 1987, Charlotte Politi 1990, Tais Conte Renzetti 1990 e Giorgia Duranti 1993, Giordana Rubria Fiori 1991, Sergio Lapedota 1986, Valentina Rando 2001, Irina Ryabikova 1990), cantanti e giovani professori della Cherubini.

Che fascino nel vederlo “smontare”, dopo Falstaff, Traviata, Aida, Macbeth e Nozze di Figaro, il verismo al quadrato di Mascagni e Leoncavallo, riconosciuti (almeno quanto traditi) in tutto il mondo.

Si aggira come un leone fra podio, palco, orchestra, cantanti, leggii; spiega parole italiane lontane e invece vicinissime anche a questi “millennials”; corregge arcate, vocali, arpeggi, fraseggi, aggiusta difetti, insegna a impugnare la bacchetta correttamente, racconta di Scala, Metropolitan, Firenze, Filadelfia, Londra, Berlino, Chicago, di mezzosoprani sfiatati, registi incompetenti, direttori mediocri, impreparati, a volte grandi e grandissimi.

Ma l’invocazione ricorrente è: “Dai ragazzi: teatro!”, come se l’eredità più decisiva da trasmettere fosse quella di un senso del palcoscenico e del racconto che arrivi al pubblico, che comunichi energia, chiarezza, bellezza: un compito importante, per chi se l’è scelto come mestiere. E poi lo stile, la consapevolezza del mondo poetico che si sta affrontando: “…se no facciamo Monteverdi!”, e con puntiglio mostra come in Pagliacci il Prologo debba essere ben distinto, nell’asciuttezza l’interpretazione, dall’azione che lo segue.

Spiega le trame, il carattere dei personaggi, ogni frase è analizzata al microscopio: l’opera è davvero tutta nel frammento. Ma insiste su un punto – sentendosi quasi l’ultimo dei giapponesi rimasto nella giungla: “Cavalleria è verismo ma con nobiltà, cerca di trasmettere l’aristocrazia, non la volgarità, della cultura popolare”. E racconta di quando Karajan volle affrontare alla Scala da par suo queste due partiture, chiedendo aiuto al grande direttore Franco Ferrara, e suscitò perplessità nell’altezzoso e “autarchico” mondo operistico di casa nostra.

Muti oscilla fra incoraggiamento e sconforto, il primo per i ragazzi, che ama e incalza come figli; il secondo per il mondo di fuori, dai responsabili politici ai mistificatori della musica, cui non risparmia strali e frecciate continue. Mutando però registro di continuo fra profondità e humour, confidenza e rigore.

Questa, sembra dirci Muti dall’alto della sua lunga esperienza di artista/artigiano della musica, è la via italiana all’arte, questa la fedeltà ad una grande eredità, questo ciò che fa dell’opera cultura e non routine.

Mi commuove e mi inorgoglisce, il privilegio che ho da trent’anni di frequentare il backstage di questo grande artista, dai tempi del suo arrivo alla Scala; ed è stata davvero una bella intuizione la nascita di questa Italian Opera Academy,  aperta a chiunque voglia seguire il suo racconto/lezione: giovani professionisti o anche semplici auditori.

Si torna rimotivati e responsabilizzati al proprio lavoro, qualunque esso sia, dopo una giornata così. E basta una frase a certificare qual’è il metodo del fare arte, quale è il lavoro del direttore, la sua responsabilità, anche psicologica: “Chi ha fatto la Callas è stato il grande direttore Tullio Serafin”: ed ecco che la fresca lettura delle lettere della grande cantante sul rapporto col “suo” maestro, pubblicate recentemente, trova piena conferma nelle parole di Muti.

Mi chiedo se conoscere da vicino i dettagli del fare musica, i suoi segreti, il suo accurato costruirsi, tolga qualcosa alla pura e semplice fruizione in teatro, senza nulla conoscere del lavoro che ci sta dietro. No, mi rispondo: serve come il pane anche a noi semplici fruitori capire il lavoro che lo precede, ci permette di viverla più consapevolmente, ci libera dalle false commozioni e dal sentimentalismo.

E poi l’insistita, pervicace, difesa della ‘italianità’ musicale, della sua grandezza spesso fuorviata e  confusa con le sue tante parodie. Così racconta con convinzione: “Ma lo sapete che l’ultimo concerto come direttore di Gustav Mahler, alla Carnegie Hall il 21 febbraio 1911, pochi mesi prima di morire, fu tutto dedicato alla musica italiana contemporanea che noi invece snobbiamo ancora oggi?

Did you know that the last concert conducted by Gustav Mahler at Carnegie Hall on February 21, 1911 – a few months before his death – was entirely dedicated to Italian music?

Parlo di grandissimi musicisti come Sinigaglia, poi ucciso nel lager, Martucci, Busoni, Bossi…e scelse di aggiungervi la Sinfonia Italiana di Mendelssohn solo perché il pezzo di Sgambati non era finito. Siamo degli inguaribili provinciali, non conosciamo il nostro patrimonio e confondiamo le nostre cattive abitudini con la tradizione”.

Andrebbe avanti chissà quanto, soprattutto sulle malefatte “culturali” della nostra classe dirigente. Ma poi vincono la musica e i giovani che lo circondano pendendo dalle sue labbra (venerdì sera, quando in teatro li introdurrà al pubblico, si vedranno i frutti di queste settimane di lavoro su Cavalleria e Pagliacci): loro sono il futuro della nostra cultura, ancor più ferita in tempi di pandemia.

Ma vedendo le facce di questi giovani musicisti appassionati, sento che i semi gettati da Riccardo Muti stanno cadendo su terra buona. Daranno frutto al tempo opportuno, ne sono sicuro.

Massimo Bernardini, Huffpost, July 29, 2020

 


 

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