Con Mozart sono andato a “Nozze”
– Riccardo Muti | April 12, 2020
Il mio primo Mozart è stato quello dello studente che cerca di arrampicarsi sulle note: avevo sul pianoforte le Sonate ed ero soprattutto intento a raggiungere la tecnica necessaria per tradurre la pulizia estrema della sua scrittura. Non ero preso ancora dalla grandezza. Tuttavia lo potevo toccare. E fu fondamentale questo contatto iniziale, fisico. In breve arrivai sul podio, era il 1962. Col diploma di pianoforte, alla mitica scuola di Vitale al Conservatorio di Napoli, ero passato a Milano, per studiare direzione con Votto (insieme a composizione con Bettinelli). Ricordo la prima lezione, a novembre. Il Maestro, burbero, di cuore dolcissimo, lui l’assistente storico di Toscanini, mi consegnò una piccola partitura: «Leggiti questa, tra una settimana ritorni e mi mostri cosa sai fare». Era l’Ouverture del Don Giovanni.
My first Mozart was that of the student who tries to climb the notes: I had the Sonatas on the piano and I was above all intent on achieving the necessary technique to translate the extreme cleanliness of his writing. I was not taken by size, yet. However, I could touch it. And this initial physical contact was fundamental. In short I arrived on the podium, it was 1962. With the piano diploma at the legendary school of Vitale at the Conservatory of Naples, I had gone to Milan to study direction with Votto (together with composition with Bettinelli). I remember the first lesson, in November. The Maestro, gruff but with a very sweet heart, historic assistant of Toscanini, gave me a small score: “Read this, in a week you will come back and show me what you can do”. It was Don Giovanni‘s Overture.
Tornai. Ebbi qualche problema nel passaggio dall’Introduzione all’Allegro, che Votto mi risolse rapidamente. Ma a folgorarmi rimase quel re minore: tonalità che accompagna Mozart nelle composizioni più straordinarie, dal Kyrie K341 al Requiem ultimo. Don Giovanni, l’opera che può sembrare giocosa, e che conteneva invece l’idea di morte, di tragedia, di fine. Avevo 21 anni. Rimasi disorientato, anche perché nel mio immaginario l’idea di dongiovanni aveva tutto un altro carattere. Non certo quello che affiorava da un Allegro che fugge, in un rincorrersi di tonalità, come una farfalla senza posa, inquieta, incerta sul se e quando posarsi.
Incontrai così per la prima volta la leggerezza di Mozart, sempre profondissima. Come nelle tre opere scritte con Da Ponte, dove anche gli elementi di occasione offrono al compositore di innalzarsi verso vette altissime. Soave sia il vento, ad esempio: sulla carta è un gioco, un finto addio per una finta partenza. Ma dietro alla burla di due sorelle che si scambiano i fidanzati, Mozart intuisce qualcosa di misterioso. E proprio lì, quando siamo pronti all’inizio dell’avventura maliziosa e erotica, la musica ci porta uno dei momenti più assorti, di indicibile malinconia. E le parole corrispondono alle note, perfette.
Novembre 1962-novembre 1967: diplomato in composizione, diplomato in direzione, vinco il Cantelli, e tra i concerti legati al Premio ce n’era uno con l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. A quei tempi, nella concezione generale, era dato per scontato che un direttore stesse anche al pianoforte, inimmaginabile il contrario. Nel programma figurava il K595, in si bemolle maggiore. Solista Richter. Partii da Milano in un pomeriggio piovoso, il grande pianista mi aspettava a Siena. Era lì per un periodo di studio, come faceva spesso, lui che adorava l’Italia (diceva sempre: «Ogni cittadino del mondo ha due patrie, una è l’Italia») e ci incontrammo all’Accademia Chigiana. In uno dei grandi saloni c’erano due pianoforti. «Prenda quello di destra», disse Richter. La traduttrice tradusse. «Inizi pure».
Ero un buon pianista, ma non mi aspettavo di dover suonare davanti a lui tutta l’introduzione orchestrale. Tra l’altro particolarmente ampia, in questo Concerto. Richter girava intorno, mi studiava. Leggemmo primo, secondo e terzo movimento, sempre senza dire una parola che non fosse la musica. Solo alla fine arrivò il commento: «Se dirige come suona, è un buon musicista». Quello fu il mio primo grande incontro con la musica di Mozart. Scevro dalle difficoltà tecniche da studente alla tastiera, lontano dalle difficoltà emotive della prima volta, con l’Ouverture del Don Giovanni. Quel gigante di Richter me ne illuminò il vero ingresso: ogni dettaglio veniva talmente approfondito da diventare naturale come un tema; tutto si trasformava in gioia, semplicissima, eppure frutto di un lavoro di scavo verso l’essenziale.
November 1962-November 1967: graduated in composition, graduated in conduction, I win the Cantelli Prize. And among the concerts linked to that Prize, there was one with the orchestra of the Maggio Musicale Fiorentino. Those days, it was generally expected that a conductor could also play the piano, the opposite was unimaginable. The program featured the K595, in B flat major. Richter was the soloist. I left Milan on a rainy afternoon, the great pianist was waiting for me in Siena. He was there for a period of study, as he often did. He who adored Italy (he would always say: “Every citizen of the world has two homelands: one is Italy.”) and we met at the Accademia Chigiana. In one of the large halls there were two pianos. “Take the right one,” said Richter. The translator translated. “Go ahead.”
I was a good pianist, but I didn’t expect to have to play the whole orchestral introduction in front of him, which, among other things, is particularly wide in this Concert. Richter went around, studied me. We read the first, second and third movements, always without saying a word other than music. Only at the end came the comment: “If you conduct the way you sound, you are a good musician.” That was my first big encounter with Mozart’s music. Free from technical difficulties as a student on the keyboard, far from the emotional difficulties of the first time, with the Overture of Don Giovanni. That giant of Richter illuminated my true entrance: every detail was so deep that it became natural as a theme; everything turned into joy, very simple, yet the result of an excavation work towards the essentials.
Assai diverso da Zino Francescatti, con cui nel 1973 incisi due Concerti di Mozart, a Londra: ormai settantenne mi diede una lezione indimenticabile di stile, di signorilità. Là dove la semplicità diventa complessità (o viceversa).
Non pensavo più al mondo mozartiano: ero direttore principale a Firenze, mi occupavo di Verdi, Bellini, Rossini, ero immerso nel mondo del melodramma, con sconfinamenti nella African di Meyerbeer con Jessye Norman e nella Agnes di Spontini con la Caballé. Era il 1975. Siciliani – il più grande direttore artistico del mondo dell’opera, allora alla guida della Sinfonica Rai di Roma, un delitto eliminarle, lei e le sorelle – un giorno mi apostrofò: «Muti, dovrebbe incominciare a pensare a Mozart». Così. Lapidario. Mozart era allora dominio degli austriaci, sarebbe stato un affronto che vi entrasse un italiano. Proprio io, poi, che mi ero costruito la fama di direttore verdiano. C’era stato Cantelli, sì, col suo Così fan tutte, ma era considerato un unicum. Anzi: un pericolo, da dimenticare.
A Firenze furono Nozze di Figaro straordinarie, con la direzione artistica di Alberti, la regia memorabile di Vitez, un grande cast che andava da Morris, Allen a Marshall (allieva della Schwarzkopf, che aveva cantato Fiordiligi con Cantelli). Tante prove, tanto lavoro di cesello, con l’orchestra che aveva ancora gli archi di Gui, dal colore di seta, e la spalla di Antonio Abussi, mitico; napoletano, naturalmente. Fu un tale successo di pubblico, che spiazzò gli scettici. Siciliani non mollò l’osso. E tornò alla carica, dalla Scala: voleva portare le Nozze con la regia di Strehler. Nel consiglio del teatro si mise ai voti la mia direzione: ci fu solo un voto contrario.
Ma nel frattempo, avevo diretto Mozart al Festival di Salisburgo, invitato da Karajan: ricordo la telefonata, al mattino presto, nel 1979, mentre ero in tournée negli Stati Uniti con la Philharmonia di Londra. «Karajan», uscì dalla cornetta. Una voce grave. E io di rimando: «Qui c’è un cretino che disturba». E lui: «Sono Karajan». Io: «Maestro, come ha fatto a trovarmi?» (ero in un hotel a Raleigh, nel Nord Carolina) Lui: «Se uno vuol trovare qualcuno lo trova». Parlava benissimo in italiano. Aggiunse che aveva pensato a me per la prossima edizione del Così fan tutte. Forse Paumgartner, che viveva a Firenze, gli aveva parlato del successo delle Nozze di Figaro. Replicai che non lo avevo mai diretto. Che a Salisburgo c’era la fama di Böhm. Che per un italiano avrebbe potuto essere un suicidio. «Muti: sì o no». Fu sì. Come scrisse un critico tedesco, si era passati dal «Cosi» di Böhm, al «Così» di Muti.
But in the meantime, I had conducted Mozart at the Salzburg Festival, invited by Karajan: I remember the phone call, early in the morning, in 1979, while I was on tour in the United States with the London Philharmonia. “Karajan,” came out of the phone. A serious voice. And I return: “Here is an idiot disturbing”. And he said, “It’s Karajan.” Me: “Maestro, how did you find me?” (I was in a hotel in Raleigh, North Carolina) He: “If someone wants to find someone, he finds him.” He spoke very well in Italian. He added that he had thought of me for the next edition of Così fan tutte. Perhaps Paumgartner, who lived in Florence, had told him about the success of the Marriage of Figaro. I replied that I had never conducted it. That in Salzburg there was the fame of Böhm. Which for an Italian could have been suicide. “Muti: yes or no.” It was yes. As a German critic wrote, it had gone from Böhm’s “Cosi” to Muti’s “Così”.
Il Mozart con Strehler, nel 1981, fu poi una delle esperienze scaligere più intense: un mese di prove al pianoforte, col regista sempre presente. Instancabile in scena, dove voleva da subito tutti in costume, parrucche comprese, «perché bisogna vestire l’anima». C’è una foto bellissima di Silvia Lelli, dove stiamo seduti vicini, su due seggiole. Ma quelle due seggiole avevano percorso un tragitto: partiti distanti, ai due estremi del palcoscenico, man mano ci eravamo avvicinati, in un’atmosfera incredibile di reciproca costruzione. Nel 1987 si arrivò al Don Giovanni, 7 dicembre. Ricordo una sera tardi, la Scala vuota, Strehler solo in scena col suo team: provava le luci della Serenata. Mi sedetti commosso. Blu scuro, mai avevo visto a teatro una notte tanto toccante. Perfetta. E invece Strehler andò avanti a lavorarci ancora per due ore. Rifinendo, ritoccando. Finché il bellissimo non diventò sublime. Con lo stesso scavo con cui il Là ci darem la mano di Don Giovanni e Zerlina diventa un gesto che non si raggiunge. Il “casinetto” un miraggio. Il tempo una danza, quasi spirituale. E loro lì, sospesi nell’aria.
Mozart with Strehler, in 1981, was one of the most intense La Scala experiences: a month of rehearsals on the piano, with the director always present. Tireless on stage, where he immediately wanted everyone in costume, including wigs, “because you have to dress your soul”. There is a beautiful photo of Silvia Lelli, where we are sitting close together on two chairs. But those two chairs had covered a journey: distant parties, at the two ends of the stage, as we had come closer, in an incredible atmosphere of mutual construction. In 1987 we got to Don Giovanni on December, 7. I remember a late evening, the empty staircase, Strehler alone on stage with his team: he was feeling the lights of the Serenade. I sat down, moved. Dark blue, never had I seen such a moving night at the theater. Perfect. Instead, Strehler went on working on it for two more hours. Finishing, adjusting. Until beautiful became sublime. With the same excavation necessary for the Là ci darem la mano of Don Giovanni and Zerlina to become a gesture that cannot be reached. The “casinetto” a mirage. Time is a dance, an almost spiritual one. And them, there, suspended in the air.
La relazione assoluta, verticale, tra parola e musica, è il cuore della scrittura di Mozart. Dove il suono si inebria, a volte persino di una sola sillaba. «Fa di me quel che ti par», nel Così fan tutte: frase linda, che la musica svela. Oppure: «Folle è quel cervello che sulla frasca ancor vende l’uccello»: gioco libero, di un erotismo mai triviale. Come nella litania religiosa che accompagna «Il mio fallo tardi vedo», gioco impudico di doppi sensi. O ancora nella frase della Contessa, «Dove sono i bei momenti», che è un interrogativo (e non un’affermazione) sensuale, carnale. Di rimpianto fisico, con una donna che dice e canta la nostalgia di dolcezza e piacere. Metafisica e insieme estremamente concreta, come solo sapeva Mozart.
Riccardo Muti, il Sole 24 Ore, April 12, 2020
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