“MAESTRO MUTI, COME BACK!”

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“Muti: Che bello tornare al San Carlo con il mio Mozart”

Riccardo Muti apre la stagione del San Carlo di Napoli dirigendo Così fan tutte e l’occasione è rilevante per almeno tre motivi. Primo perché Muti, quando affronta questo capolavoro mozartiano, ne dà una lettura insuperabile, limpida e profonda. Secondo perché da più di un trentennio Muti non sale sul podio di un’opera nella sua città natale. Terzo perché oggi è rarissimo che il direttore italiano più famoso del pianeta, ormai impegnato per gran parte dell’anno negli Usa con la “sua” Chicago Symphony, proponga un titolo di lirica in Italia.
Un’altra ragione di curiosità sta nell’allestimento firmato da sua figlia Chiara, regista sensibile e musicalissima, cresciuta nella lezione di Strehler. Coprodotto dall’Opera di Vienna, il nuovo Così fan tutte va in scena oggi nel massimo teatro partenopeo.

Maestro Muti, questo debutto stimola il suo orgoglio di appartenenza alla città?

«Sono molto legato a Napoli, dove ho vissuto e studiato da ragazzo. È uno scrigno di tesori malgrado le sue ferite e ha ancora un immenso potenziale artistico e umano. Conserva le fattezze di una grande capitale e non esiste un teatro più bello del San Carlo. Sono fiero di essere un uomo del sud e rivendico le mie radici musicali italiane. Dall’Austria all’Inghilterra mi hanno riempito di riconoscimenti, ma io mi sono formato al cento per cento in Italia e tutte le onorificenze le ho ricevute dopo».

Mozart, con Verdi, è il compositore cui si è dedicato di più.

«Non smetto mai di scoprirlo. Anche ora, tornando su Cosi fan tutte, trovo rivelazioni sulla partitura e sul rapporto strettissimo della musica col testo di Da Ponte, ricco di sottigliezze, sfumature, doppi sensi e allusioni erotiche. L’interprete deve tenere conto di ciò che la frase nasconde: c’è una verità dell’opera negata a chi non domina l’italiano, lingua che Mozart possedeva».

Lei svelò questo aspetto quando ebbe l’occasione di dirigerla per la prima volta…

«Diressi il mio primo Così fan tutte nell’82 a Salisburgo su invito di Karajan, e fu un successo internazionale che diede un vigoroso impulso alla mia carriera. Credo che l’aspetto di novità della mia lettura stesse nell’aver unito alla tradizione mitteleuropea una prospettiva consapevole degli influssi che ebbe su Mozart la scuola settecentesca italiana e soprattutto napoletana. Uno sguardo nutrito dal genio di Lorenzo Da Ponte: voglio dire che nell’opera c’è una mobilità continua e vitalissima tra musica e parole, e che l’esecuzione deve tenerne conto. Questo può darle uno scatto e dei contrasti che forse mancano a interpretazioni di esclusivo stampo austro-germanico».

Ma c’è più da ridere o da piangere in Cosi fan tutte?

«Con la sua storia di due coppie che si scambiano i partner dentro una partita di travestimenti che porterà alla luce la loro capacità di mentire e tradire, l’opera ha un’essenza tristissima nonostante le sue varie situazioni comiche o buffe. Si ride, certo, ma stando in bilico su un abisso di malinconia».

Quando si smascherano i rapporti spingendoli verso la totale verità, come accade nel film Perfetti sconosciuti, emergono le bugie più dolorose.

«L’opera vuol suggerirci questo. È la più enigmatica fra le tre che costituiscono la trilogia Mozart-Da Ponte, che io ho diretto più volte e con regie diverse da Salisburgo alla Scala e a Vienna. Le Nozze di Figaro è la più solida teatralmente. Don Giovanni è la più drammatica e infernale, intrisa dall’odore dello zolfo. Così fan tutte è un universo misterioso e colmo di ambivalenze proiettato verso una fine disincantata e cinica».

Nell’ottica di Mozart le donne sono geneticamente inaffidabili?

«Non solo loro! L’opera potrebbe chiamarsi “Così fan tutti” e non a caso il sottotitolo è “La scuola degli amanti”. È stata vista come misogina, ma basta conoscerla bene per capire che la sua amarezza riguarda i rapporti umani in assoluto, a prescindere dai generi».

Leonetta Bentivoglio, la Repubblica, 25 novembre 2018


“Il Mozart fatato di Muti”

Nel segno di Mozart, il San Carlo ha aperto ieri la stagione con il colpaccio di riportare Riccardo Muti per un’opera nella sua città, 34 anni dopo il Macbeth. I biglietti volano fino a 1.200 euro, un record, festeggiato al termine da lo minuti di applausi. E al teatro di Napoli, davanti a Casellati, presidente del Senato, e ai ministri Tria e Costa, Napoli (l’azione si finge lì) non c’è, se non in un’idea, come metafora di umori. Tutto è astratto nella regia di Chiara Muti, che riserva più di una sorpresa sotto gli occhi di suo padre: Guglielmo e Ferrando si sfidano in una partita di pallacorda, incrociando le racchette nel gioco della vita, sul tema della fedeltà.
È un Così fan tutte attraversato da un velo di malinconia che copre l’amarezza dei rapporti umani: è l’elemento che connota (assieme alla trasparenza timbrica esaltata in Soave sia il vento, il momento più celebre), la direzione di Muti, il suo leit-motiv. È l’opera del perdersi e ritrovarsi (si paleserà anche un labirinto). Ma niente sarà come prima, si fa capire nel finale, durante lo smascheramento, mentre le coppie si ricompongono, e non mancano le tensioni fra loro.
Come quattro anni fa a Roma, Muti alla regia ha voluto sua figlia Chiara, cresciuta alla scuola di Strehler. Il mare è increspato, visto in lontananza, giocato con le luci; le due giovani donne sono distese in letti a forma di barca: è un mondo, appunto, strehleriano. «Uno spazio come luogo della mente», dove trovi specchi che sono una riflessione della propria immagine e pensiero.
Don Alfonso, il filosofo del sestetto, muove le sue pedine come cavie, dà una «sporcatura» a quelle giovani vite accelerando l’addio alle utopie amorose, «sveglia in loro la crudezza della maturità, non è altro che accettare le imperfezioni della vita», come dice Chiara. La mascherata della festa per sedurre le ragazze avviene in un giardino incantato, cervi e caproni, a mo` di Sogno di una notte di mezza estate, mentre Despina scende da una mongolfiera. Se lo spazio maschile di Guglielmo e Ferrando è in una sfida atletica, Dorabella e Fiordiligi appaiono in un mondo fatato, attraversando gli ultimi momenti della purezza. La narrazione è avvolta in una grazia umbratile. «E un testo metafisico sulla questione profonda dell’Io in rapporto all’altro, mi sono concentrata sul contenuto filosofico dello scambio di coppia», dice la regista.
Napoli viene chiamata in causa una sola volta nel testo, in una delle tante allusioni erotiche, quando una delle due dame dice di sentire un Vesuvio nel petto. «Leggenda vuole», racconta il direttore, «che la vicenda sia veramente avvenuta a Vienna, nel distretto di Neustadt, ovvero città nuova. Non potendo ambientarla lì, si dice Napoli, Neapolis che in greco antico vuol dire nuova città. Sarebbe stata usata come riferimento occulto a quel distretto viennese, il che è un altro gioco infernale di Lorenzo Da Ponte: se non è vero, è verosimile».
C’è poi una evocazione della Sesta napoletana: «È una forma armonica che dà il colore della nostalgia e richiama la mediterraneità». Napoli è nel mare e in certi movimenti sensuali della musica, negli istinti che non si riescono a placare.
E i personaggi si accompagnano a mimi con lanterne magiche, indossano costumi di epoche diverse, a sottolineare che «questa storia vale per ogni tempo». Don Alfonso è l’unico immerso nel ‘700. Le coppie si ricompongono, il doversi sposare ha un sapore di mestizia: «Devono amare qualcuno che forse non amano più». Qui c`è una nota autobiografica di Mozart, che amava (non riamato) Aloysia Weber e poi sposò sua sorella Costanza. «Convien armarvi, figlie mie, di costanza», è l’esortazione di Don Alfonso alle due fanciulle. È un`opera basata sulla tenuta della fedeltà, la costanza, che è anche il nome della moglie di Mozart. Un testo pieno di trabocchetti. Nel visionare la copia del manoscritto, Riccardo e Chiara hanno visto che là dove c’è scritto la sua costanza comincia a vacillar, Mozart cancella la parola «sua» e la cambia in «mia». Inganni, ma senza misoginia. Perché così fan tutti, donne e uomini.

Valerio Cappelli, Il Corriere della Sera, 26 novembre 2018


“Muti seduce Napoli con l’eros di Mozart”

Riccardo Muti è tornato a Napoli. Dopo 34 anni di assenza dalla sua città il Maestro ha inaugurato ieri sera la stagione operistica del Teatro San Carlo con Così fan tutte di Mozart. Un evento cui hanno assistito anche il presidente del Senato Casellati, i ministri Tria e Costa, il sindaco De Magistris, il presidente della Campania De Luca. Lo spettacolo è un nuovo allestimento della Fondazione napoletana in coproduzione con la Wiener Staatsoper che ospiterà il capolavoro mozartiano nel 2020. La regia è di Chiara Muti, alla sua terza collaborazione con il padre, dopo Sancta Susanna di Hindemith e Manon Leascaut di Puccini; Leila Fteita firma le scene e Alessandro Lai i costumi.
Delle tre opere italiane su testi di Da Ponte, Così fan tutte, scritta nel 1790 ed ispirata ad un fatto di cronaca mondana, è la più ambigua e sfuggente, titolo che il Maestro incontra per la quinta volta. La lunga frequentazione di Muti con Mozart e con la grande scuola napoletana del Settecento gli hanno fornito le chiavi per un grande e puntiglioso scavo interpretativo e allo stesso tempo ne ha maturato un approccio disincantato e malinconico. Per risolvere un’opera come Così fan tutte ci vuole, tra l’altro, una cura assoluta nella recitazione. In questo Muti è stato esemplare nel lavoro di preparazione dei cantanti, che hanno restituito in tutte le sue sfumature ed ambiguità il testo di Da Ponte.

GIOCO SOTTILE
La vicenda dei due ufficiali napoletani che si travestono da nobili albanesi per mettere alla prova la fedeltà delle rispettive ragazze e conquistano l’uno la fidanzata dell’altro non è solo una farsa. La musica di Mozart propone un gioco sottilissimo tra menzogna e verità e rappresenta una condizione perenne dell’esistenza umana: scoprire il volto dietro la maschera, la verità dei sentimenti dietro l’esteriorità dei comportamenti. Nella lettura registica di Chiara Muti l’illusione è più reale della realtà stessa e la scena immaginata nello spettacolo è come una Lanterna Magica, fatta di specchi. È come uno spazio della mente, nel quale aria e acqua si riflettono in segno di eterno movimento. La regista si è ispirata come scenografia al tableau Le serment du jeu de paume di Jacques-Louis David, mentre ha immaginato i due personaggi femminili a ripercorrere, senza saperlo, i miti delle favole che da bambine affollavano i sogni della loro infanzia. Questo capolavoro ha fatto più fatica e ha impiegato molto più tempo degli altri titoli mozartiani ad essere compreso, proprio perché il suo messaggio non è tanto una dissacrazione dell’animo femminile, bensì il disincantato riconoscimento delle debolezze umane e del rimescolamento dei ruoli tra le persone attraverso l’eros. La partenza di Ferrando e Guglielmo, fingendo il loro arruolamento come soldati, è l’inizio di un viaggio che porterà alla disillusione. Accettando la sfida del loro amico, il vecchio filosofo Don Alfonso, a giocare con i sentimenti, alla fine i due amici nei loro corteggiamenti sono paradossalmente più convincenti di quelli originali, ma allo stesso tempo avvertono una sorta di malinconia, perché costretti ad abbandonare l’amore riscoperto per rimanere fedeli a quello promesso. Vero e proprio “motore” della vicenda, Don Alfonso non vuole seminare devastazione morale, ma semplicemente aprire gli occhi a due giovani che credono ciecamente alla fedeltà delle donne e riportare la loro visione dell’amore ad un più maturo realismo.
Nelle sue opere “italiane”, e quindi anche nel Così fan tutte, Mozart compie una vera e propria rivoluzione nel teatro musicale. Lo trasforma da brillante gioco di palcoscenico ad un autentico specchio della vita. I suoi personaggi non sono più tipi, ma uomini in carne ed ossa, che agiscono attraverso una perfetta coincidenza tra la forma del discorso musicale e la scioltezza dell’azione drammatica.

CASO UNICO
Così fan tutte rappresenta un caso unico nel teatro di Mozart. La partitura è ricca di diversi tratti stilistici: talvolta fa il verso all’opera seria con arie di vocalità impervia («Come scoglio immoto resta») oppure con stereotipi dell’opera buffa, fatti di palpiti, smanie e sospiri. Arriva a lasciare di stucco lo spettatore utilizzando il sublime in chiave umoristica, come nel quintetto
«Di scrivermi ogni giorno»: le due sorelle salutano i fidanzati in partenza e contemporaneamente Don Alfonso canta «Io crepo se non rido».
L’approccio musicale è di profonda fedeltà al testo. Riccardo Muti debuttava fan tutte nella città che l’ha formato e che ha avuto un ruolo fondamentale nella germinazione del linguaggio mozartiano, come lo stesso direttore ha dimostrato nel suo progetto al Festival di Pentecoste di Salisburgo. Muti ha risolto da par suo le tante gemme della partitura. Su tutti il sublime terzetto “Soave sia il vento”, con quei commoventi disegni orchestrali messi in primo piano quando serviva e il vertiginoso finale del Primo atto, sempre in sintonia con l’orchestra e i cantanti. Buono il cast: Maria Bengtsson (Fiordiligi), Paola Gardina (Dorabella), Alessio Arduini (Guglielmo), Pavel Kolgatin (Ferrando). Despina era interpretata da Emmanuelle de Negri, Don Alfonso da Marco Filippo Romano. Sono previste quattro repliche, fino al 2 dicembre.

Luca Della Libera, Il Messaggero, 26 novembre 2018


“Riccardo Muti dirige un Mozart da tramandare”

Riccardo Muti torna al San Carlo di Napoli dopo 34 anni con un memorabile Così Fan Tutte di Mozart per l’apertura della stagione d’Opera e danza 2018-19. Allestimento metafisico e antichi splendori musicali a braccetto che è una meraviglia. Al termine 10 minuti d’applausi e (vana) richiesta di bis, nonostante un pubblico provato da un’opera che dura quanto L’anello del Nibelungo. Che dire: sublimi l’allestimento molto partenopeo e molto pastello di Leila Fteita, i costumi illuminati di Alessandro Lai e la direzione musicale di Muti con dinamiche addomesticate per meglio assecondare i cantanti. Un tocco lieve (tipico del maestro napoletano) che avrà dato qualche problema alle ultime file, ma questo – signori è il timbro di Mozart. Per il resto la vellutata acustica del San Carlo, neanche uno squillo di smartphone e il consueto contrappunto dei tossitori per noia, molesti protagonisti che neanche la grande orchestra del Novecento riuscirebbe a silenziare.
La cronaca della serata vede una calata di ministri, minisindaci e principi locali. Tutti, o quasi, sui palchetti. Nel mazzo non faticano a spiccare i ministri Tria e Costa, la presidente del Senato Alberti Casellati e il sindaco de Magistris. E poi Bruno Vespa, il direttore del Tg2 Sangiuliano e l’appassionato Bernardini di Tv Talk. Il primo atto va via liscio. Ma è all’intervallo, dopo quasi due ore di musica, che la serata prende corpo. Del resto la voglia di socializzare è tanta, la serata è mondanissima e c’è anche la tv. E così la ricreazione tra un selfie e un babà dura la bellezza (si fa per dire) di 35 minuti. Si ricomincia a fatica. C’è il celebre brindisi: Fiordiligi, Dorabella e Ferrando intonano un canone su un tema affettuoso e l’atmosfera si fa incantata. Altra ora e mezza di grande musica e infine tutti in piedi ad applaudire il maestro, la figlia Chiara, la svedese Maria Bengtsson (Fiordiligi), Paola Gardina (Dorabella), Alessio Arduini (Guglielmo), il russo Pavel Kolgatin (Fernando), Emmanuelle de Negri (Despina) e Marco Filippo Romano (Don Alfonso).
Come si sa, il celebre dramma giocoso in due atti di Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte si svolge a Napoli. La scelta stilistica della regista è stata quella di dipingere una città incantata senza collocare l’azione in epoca precisa. Come quattro anni fa a Roma, Muti alla regia ha voluto la figlia Chiara, cresciuta alla scuola di Strehler, e si vede. I suoi spazi sono luoghi della mente, dove gli specchi riflettono immagine e pensiero. Quattro le repliche fino al 2 dicembre. Dicevamo dell’assenza di Riccardo Muti da Napoli. Sono trascorsi 34 anni dal dicembre 1984 quando diresse il Macbeth di Giuseppe Verdi per la regia di Sandro Sequi. Così Fan Tutte è sicuramente uno dei titoli del cuore. Tra le tante esecuzioni di Muti si ricorda quella del 1994 a Vienna con la regia di Roberto de Simone. Ieri l’ennesima grande pagina di questo nostro gigante della musica.

Jacopo Granzotto,  il Giornale, 27 novembre 2018


“Il maestro Muti sul presepe: l’omaggio di Ferrigno a San Gregorio Armeno”

Nel giorno di pausa del Così fan tutte al San Carlo, in programma fino a domenica, Riccardo Muti ha fatto il turista a Napoli nel centro storico senza mancare una tappa a San Gregorio Armeno. Nella via dei presepi, s’è fermato nella bottega di Marco Ferrigno che ha realizzato un pastore “Maestro Riccardo Muti”.

Una statuetta di trenta centimetri che raffigura il direttore sul podio con tanto di bacchetta. “La metterò sul mio presepe”, ha detto Muti, divertito dalla sorpresa tra flash di fotografi e richieste di selfie di napoletani e stranieri che lo hanno riconosciuto tra la folla. Ad accompagnarlo l’ex sovrintendente del San Carlo Francesco Canessa che lo ospiterà venerdì (ore 16.30) alla Biblioteca Nazionale in occasione della presentazione del suo nuovo libro “C’eravamo tanto odiate”, sulla rivalità tra Callas e Tebaldi.

Donatella Longobardi, Il Mattino.it, 28 novembre 2018


E Muti rivela “l’altro” Mozart

“Se andassi su un’isola deserta porterei con me Falstaff e Così fan tutte” ha spesso dichiarato il maestro Riccardo Muti.
Sincera ammissione di un amore diviso tra Verdi e Mozart, ma soprattutto della indiscussa, costante riscoperta di due opere analizzate negli anni a cuore aperto, in una continua discesa nei loro più impalpabili segreti. I risultati sono vieppiù strepitosi ogni volta che l’incontro avviene. Perché quello del maestro Muti è il meraviglioso ricercare, attento e premuroso, di un direttore che sa di avere tra le mani un reperto prezioso e delicato. Non scava il nostro maestro, soffia delicatamente via la polvere, soffia via le tracce del tempo per rendere (e lo stesso, in realtà, anche per altre grandi partiture) i capolavori attuali senza la violenza che contraddistingue certe letture, di direzione e di regia, del mondo teatrale d’oggi. Una violenza che non è solamente incomprensione, ma soprattutto la paura di affrontare un capolavoro.
Al Teatro di San Carlo il maestro Muti è tornato (repliche sino a domenica 2) sul podio per il Così fan tutte, una coproduzione con la Staatsoper di Vienna, ricreando un asse tra il capoluogo campano e l’Austria, come fu a Salisburgo con la messa in scena del Settecento napoletano, un periodo storico che influenzò anche Mozart. Infatti, la trama napoletana dell’opera, dal podio e dalla regia, ci arriverà non oleografica, ma rivelata dalla partitura nei suoi colori, nelle ansie e nelle libertà amorose che il compositore respirò nei suoi viaggi nell’allora capitale del regno delle Due Sicilia. A Napoli quindi si svolge Così fan tutte. Due fidanzati mettono alla prova, spinti da don Alfonso filosofo perverso, la fedeltà delle loro donne. Partono e subito tornano camuffati corteggiando ognuno la fidanzata dell’altro. La resistenza è vana, si riinnamorano le due donne, ma anche i due uomini. Come a dire così fan tutte e tutti, e così ironicamente alla fine «trionfa l’amore». Mozart è amaro, stanco, va verso la morte (ascoltate il contemporaneo Quintetto per archi). L’opera è del 1790, lui morirà l’anno dopo (sepolto in una fossa comune resterà senza tomba il compositore che ha creato il più grande monumento alla musica e alla natura dell’uomo).
Ed è una profonda malinconia quella che il maestro Muti disvela, alza pian piano quel velo oltre il quale Mozart racchiude e nasconde i propri sentimenti e i propri dolori nel Così fan tutte, capolavoro assoluto che nemmeno lo stesso Mozart avrebbe potuto migliorare. La direzione scende in ogni angolo della partitura per portarci a una nuova comprensione, come a suo tempo ci ha fatto riscoprire il valore del perdono universale ne Le nozze di Figaro e la stupefacente trasformazione di un mascalzone come Don Giovanni in un eroe illuminista. La bacchetta del più grande direttore dei nostri giorni ci trascina nella dantesca inquietudine del Così fan tutte, nella vertiginosa altalena di buffo e dramma che ha per centro di squilibrio la vita dell’uomo.
Sin dall’avvio: le prime battute tese della sinfonia che poi si apre al tema del Così fan tutte con quel rimando veloce di strumenti solisti che parlano già di amore e d’inganno. In questo meraviglioso edificio nessuna nota è affidata al caso e il maestro Muti lo sa bene. Ecco per esempio l’introduzione a Soave sia il vento che sa di onde e di lacrime, ha la leggerezza di un palpito del cuore. Si resta senza respiro mentre i cantanti e l’Orchestra del Teatro di San Carlo raccontano la pura bellezza poetica di Mozart.
La regia è rispetto e amore per quella musica: Chiara Muti risponde all’interpretazione del direttore con altrettanta devozione alla partitura. Il bianco domina, una purezza che resterà sempre tale sino alla fine. Un bianco che si colora di pastelli da antico acquarello napoletano, un Settecento stilizzato che si macchia di rosso crudele nei costumi (ben rispondenti di Alessandro Lai) dei fidanzati che ordiscono l’inganno. La scena (di Leila Fteita) è riflesso dell’azione, si arricchisce di particolari che costruiscono la storia, e la commentano, portandoci a un Mozart universale, senza tempo, carico di luce e ingabbiato in specchi e riflessi tra cui vibra un mare d’argento.
Una regia rivoluzionaria, in questi tempi, quella di Chiara Muti perché rispettosa della musica, priva di provocazioni e prevaricazioni. C’è la tristezza (presa per mano dalle luci di Vincent Longuemare) e il divertimento: dal divertente montaggio della scena “Eccovi il medico” con le irresistibili scariche elettriche, sino alla solitudine, e già cedimento, di Fiordaligi in “Come scoglio”. E non c`è momento di fermo in questa regia: dalla partita di tennis iniziale, alla mongolfiera con amorino che scocca il dardo amoroso al colpo di scena della giostra, simbolo perfetto di quando sta accadendo tra gli amanti.
Passione, gioia e disperazione danno i cantanti dalla vocalità ineccepibile. Anche se il vostro cronista si permette una predilezione per la Fiordaligi di Maria Bengtsson, voce ora prepotente poi smarrita e conquistatrice. È il personaggio amato da Mozart e lo si comprende soprattutto in “Per pietà, ben mio, perdona” dentro cui la Bengtsson passa da registri diversi con ricchezza di sfumature. Con lei tutti i cantanti perfettamente al servizio dell’opera: Paola Gardina (Dorabella), Alessio Arduini (Guglielmo), Pavel Kolgatin (Ferrando), Emmanuelle de Negri (Despina), Marco Filippo Romano il «perfido» Don Alfonso, vero e proprio protagonista fisico e vocale. Il Coro del Teatro di San Carlo ha la cura di Gea Garatti Ansini e l’impertinente fortepiano quella di Luisela Germano. Insomma, il catalogo del successo. Il pubblico della prima ha tenuto il fiato sospeso sino ai lunghissimi e accorati applausi finali coronati dall’ovazione al direttore.
La gioia dello spettacolo è instancabilmente illuminata dalla sublime interpretazione del maestro Muti. Tempi morbidi, aerei, l’orchestra è chiamata, e risponde, a preziosi pianissimi e a trovare velocità (dal sestetto “Alla bella Despinetta” alla morbidezza di “Come scoglio”). La regìa non si lascia ingannare dal «lieto fine» e mostra i personaggi in un distante inchino. È l’amarezza, la maliconia di Mozart per la «scuola degli amanti», per l’impossibilità della fedeltà, per il doloroso edonismo che spinge i personaggi alla fine ad amare l’amore, a perdonare tutto e restare con la testa sulle spalle. «Così» il mondo è una terribile, dolorosa burla. Tutto è burla, come dice Mozart, come dirà Falstaff.

Filippo Arriva, La Gazzetta del Mezzogiorno, 30 novembre 2018


Così fan tutte con le tinte giuste

Non è vero, non lo fanno tutti: Mozart così lo dirige solo Muti. Il suo nuovo Così fan tutte, al Teatro di San Carlo, posto in lussuosa apertura di stagione, racconta l’infinita e sfuggente partitura come nessuno ancora aveva fatto. Nemmeno lo stesso direttore, nelle precedenti lontane edizioni alla Scala e a Vienna. Allora era una cattedrale squadrata, ancorata a terra. Oggi è una nuvola: sfaccettata, a pennellate vaporose, cangianti, una conversazione di suoni e parole, senza interruzioni. Dove anche l’orchestra lega, sempre, e le linee musicali diventano nastri morbidi, sinuosi, per tre ore di musica che scivolano acquatiche, in una unica arcata. E (possiamo dirlo?) in lingua napoletana.
È proprio questo idioma interno intuito con empatia a tradurre e a dare identità alla Napoli dove l’opera è ambientata. In perfetta sintonia la sciolgono Riccardo Muti e la figlia Chiara, regista, portandola da cuore a cuore. Come era nelle intenzioni di Mozart. Che non voleva certo il bozzettismo, o la cartolina con «tanti saluti da Napoli» o «tanti baci da Siviglia, castello di Agua Frescas»: al contrario. Con Da Ponte inventò città fantastiche, immaginari spazi dell’anima, dati da dettagli e sfumature. Più filologico che mai diventa perciò questo Così fan tutte, ricco di suoni e parole che non avevamo mai notato. Andando oltre la filologia di superficie dello strumento d’epoca o delle formule meccaniche, consuete e qui messe radicalmente in discussione. Vesuvio compreso, ovviamente, con pennacchio sullo sfondo.
Dopo una vita di ricerca verdiana della “tinta”, oggi Muti svela una parallela (e precedente) esistenza di una “tinta” anche nelle opere di Mozart: quella del Così fan tutte la tocchi subito, dalla Ouverture. È una identità, come di porta che si apre e dà accesso a una precisa stanza. L’orchestra, che suona magicamente incantata, risponde con un mirato colore d’assieme, prezioso, raccolto, soffice, dove è tanto scorrevole l’articolazione che non senti cambi di battuta o accenti. Il gesto è raccolto, essenziale. Eppure, tutto sta insieme perfetto, nemmeno per un attimo si scollano buca e palcoscenico. Come se fosse impossibile andare fuori da questa rete naturale, che tiene in perfetta continuità anche il “secco” dei recitativi con le malie del canto. Quante volte arrivano messaggi dell’ultimo Mozart, tra frammenti di musica sacra, pause che non hanno paura di respirare, presagi del Requiem. In questa partitura costruita sul tema degli addii. Dove il primo, nel Quintetto della partenza, è esagerato e giocoso nel testo – e lo enfatizza, giustamente ironica, Chiara Muti – mentre in buca le viole cantano pura malinconia.
Ascoltare vuol dire galleggiare, avvolti dall’innocenza, perché lo sfrontato erotismo dell’opera ha come sfondo immancabile il candore: sulla ripetizione di un accompagnamento, mai meccanica, sui temi secondari stanati comecarezze segrete, su certi impasti d’assieme dei legni, che sono gesti. Tutto scorre, in avanti. Dunque niente applausi di rito a fine ouverture, perché Muti attacca subito il seguito. Il viaggio nel Così fan tutte è già iniziato. E insieme con tutto il teatro, stipato e traboccante, anche alla seconda recita, sembra di essere già sulla mongolfiera, quella che a un certo punto apparirà, nelle scene evocative e impalpabili di Leila Fteita. C’è un filo orizzontale a tagliare la scena, memoria dei tanti fili tra i balconi di Napoli. E diventerà citazione trasfigurata di panni stesi quando alcune comparse saltellando (forse troppo, una a un certo punto scivola per terra) apriranno e chiuderanno con allegria eleganti velatini. Sullo sfondo, una gradinata luccicante delicatamente illuminata da Vincent Longuemare porta ricordi di onde marine. I costumi, che sono abiti meravigliosi, disegnati da Alessandro Lai e realizzati come solo al San Carlo sanno fare, sono pure improntati alla levità. Persino fiabeschi nel secondo atto, quando si finge, gioco nel gioco, nel giardino, e tra una siepe a labirinto (che però dalla platea si vede poco) spunta una féerie di bestiole da bosco, e le due sorelle diventano Cappuccetto Rosso, i due ragazzi Gatti con gli stivali. Quasi che Chiara Muti volesse attutire con la fiaba i tagli a sciabolate del libretto, recuperando frammenti di innocenza, di un rassicurante mondo dell’infanzia, tra giostre, cavallini di legno e materassi in un lettino da alcova, tanti, colorati, uno sull`altro come nella fiaba della Principessa. Regale in effetti è la Fiordiligi di Maria Bengtsson, lucente in tutto il registro, e personaggi centrale, in questo Così fan tutte. Più del Don Alfonso di Marco Filippo Romano, che pure ha bella voce e intonazione perfetta negli insieme, ma viene letto con un carattere più popolano che filosofico. Lei invece, ultima a cedere, tradendo, canta il Recitativo accompagnato più toccante di tutta l’opera, dove Muti le plasma sotto un Mozart francese, tragico. Per umanizzarla, prima dell’amore, alla regista basta l’intuizione di un dettaglio cinematografico, insolito, efficace: l’annusare l’abito del drudo Ferrando. Che è già lì accanto, il seduttivo Pavel Kolgatin, mentre già hanno già amoreggiato i più scherzosi Paola Giardina e Alessio Arduini. Facili prede delle trame di una Despina volitiva, Emmanuelle de Negri, che da subito vediamo già esperta nei ménage a trois. Si finisce quasi a mezzanotte, con un San Carlo tutto in piedi e applausi senza fine.

Carla Moreni, Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2018


“Così fan tutte, non Certo i Muti”

Amori dannati, anime tormentate. Per il ritorno al San Carlo il Maestro restituisce a Mozart la malinconica dannazione del capolavoro mentre sua figlia Chiara lo veste di delicatezza: cosa c’è di più piccante della nostra fragilità?
Tenerezza e disincanto inondano Così fan tutte a Napoli, in coproduzione con Vienna. Per Riccardo Muti, di ritorno sul podio del San Carlo dopo trentaquattro anni, l’opera di Mozart non è davvero commedia, né gioco geometrico di coppie scoppiate, né un’accusa all’incostanza delle donne nelle questioni sentimentali. È piuttosto un’indagine sulle contraddizioni dell’animo umano, una riflessione indulgente sulla fragilità della natura maschile e femminile, indifferentemente. Non c’è tanto da ridere, qui. C’è da pensare. E non certo a quel che può accadere sotto le lenzuola, poiché, anzi, le allusioni piccanti che crepitano nel libretto di Lorenzo Da Ponte si traducono in pulsione di morte. Il fatto è che per le due paia di fidanzati (giovani nella trama e sul palco), l’amore sembra dannazione anziché piacere, l’ossequio a una convenzione cui sottomettersi fingendo felicità. Se Guglielmo sta con Fiordiligi, se sua sorella Dorabella sta con Ferrando, questi sono i matrimoni da fare; non importa se funzionerebbe meglio un’inversione di partner, e che loro stessi l’abbiano sperimentato. Amara è la soluzione prescelta – lasciare ogni cosa com’è, senza seguire il cuore – e Muti, penetrando con pudore nell’animo dei personaggi, rivela che anche Mozart lo crede. D’altronde è la partitura a dichiararlo. Perché diverse pagine di Così fan tutte stanno tra il patetico e il serio, e anche quelle più brillanti suonano offuscate di malinconia. Quindi la condotta musicale di Muti assume un carattere crepuscolare pure quando l’orchestra sofficissima, incalzata da una brezzolina volubile che la fa respirare a pieni polmoni, diffonde tinte pastello alla Fragonard.
Ma proprio questo colorismo casto, riverbero di un’innocenza di natura, del mare e dei giardini nella scenografia, contrasta di proposito con la tensione metafisica cui sottostà perlopiù il canto (addirittura quello del coro, trasfigurato), segno di quanto l’aspirazione all’affetto autentico sia, di fatto, frustrata. Altro che sesso birichino: tutti e sei i protagonisti si trincerano nelle carcasse dei propri ruoli, dalla vocalità astratta perfino quando riesce profondamente toccante. Marco Filippo Romano è il giudizioso burattinaio che, insieme alla Despina di Emmanuelle de Negri più pragmatica che maliziosa, guida il rovesciamento delle coppie: di Alessio Arduini con Maria Bengtsson, una Fiordiligi che affonda poco nei gravi, di Paola Gardina con Pavel Kolgatin, che costruisce la sua parte con qualche difficoltà.
La regia di Chiara Muti, intrisa di memorie strehleriane, ragiona in consonanza con la visione paterna. Sottovesti, corsetti, velari, tendaggi volteggiano di continuo creando una coreografia delicatissima di tessuti bianchi, crema, celestini nelle tante figure che popolano la scena e spesso la osservano dall’alto di due logge, quasi fossero spettatori di un teatro. È candido l’abbigliamento e l’arredamento, persistenti le memorie dell’infanzia, con la presenza di cavalli a dondolo, una giostra, la mongolfiera. Ambientazione onirica, ma finale inclemente: le coppie originarie si riformano, certo, però litigano di brutto. Le loro potrebbero non essere nozze felici.

Gregorio Moppi, la Repubblica, 2 dicembre 2018