Riccardo Muti, Fratello d’Italia
Erede di Toscanini per maestria e rigore artistici, per rispetto e risanamento interpretativo dell’amatissimo Verdi, Riccardo Muti condivide con il grande direttore parmigiano un’ostinata, quotidiana professione di italianità, di tinte e intensità quasi ottocentesche, risorgimentali. La fierezza di essere italiano, figlio di una cultura millenaria, è uno dei valori irrinunciabili per il direttore che stasera al Regio aprirà le celebrazioni toscaniniane nel Centocinquantesimo anniversario della nascita.
In tempi di prestigio nazionale più che appannato può essere di conforto riascoltare la devozione di Muti per il proprio paese: “Sono sempre andato fiero d’essere italiano. Quando, giovane e implume, ho mosso i primi passi all’estero, Vienna, Londra, New York, mi sentivo come protetto dal prestigio dei nostri sommi artisti, Dante, Manzoni, i giganti dell’opera, Verdi, Donizetti, Rossini e Bellini, allievo di San Pietro a Maiella, il mio Conservatorio napoletano”. Napoli, Bari, poi Milano e poi il mondo: e la Scala, per vent’anni sul podio di Toscanini, l’ideale incoronazione a “unico erede” da parte di Renata Tebaldi nella sera del Cinquantesimo anniversario della riapertura scaligera. Dalla Scala, sulle orme del grande parmigiano ecco l’anno scorso la chiamata in Israele per ricordare, ottant’anni dopo, i concerti di solidarietà dell’esule Arturo antinazifascista.
E lungo questa straordinaria carriera tutt’ora all’apice, ecco puntuali, insistiti e battenti i richiami, gli appelli e anche le ire di Muti predicante la necessità di investire nella cultura, nell’educazione musicale, nella valorizzazione dei giovani, nella crescita artistica e civile delle nuove generazioni: “E’ un nostro dovere, è nostro compito. Soprattutto nel campo dell’opera, una meraviglia musicale nata qui, di cui andare orgogliosi di essere italiani: che è una delle lezioni morali di Toscanini”.
La Scala, Verdi, Toscanini, l’italianità. Sono il nucleo virtuoso dell’attività di Muti, un patrimonio custodito e coltivato con amorevole dedizione. C’è un episodio emblematico che racconta l’italianità di Muti meglio di tanti aggettivi. Vienna, 1996, la capitale festeggia i Mille anni dell’Austria, con un concerto nella Cappella reale dell’Hofburg. I Wiener chiamano sul podio il direttore preferito, Riccardo Muti. La mattina il cronista intercetta il maestro che passeggia meditabondo: “Stavo pensando ai trionfi che nel Settecento e nell’Ottocento i nostri giganti ebbero qui, Paisiello, Salieri, Rossini, Verdi, Donizetti diventato addirittura come allora Salieri il dominus musicale della Vienna imperiale. E poi invece il dolore, il dramma di noi italiani per ottenere il sacrosanto diritto all’indipendenza, tre guerre risorgimentali, i patrioti incarcerati e fucilati, la Grande guerra con seicentomila nostri connazionali morti…” A mezzogiorno, eccoci nella Cappella, sta arrivando il presidente della Repubblica austriaca, i Wiener provano gli strumenti, la cerimonia si aprirà ovviamente con l’inno nazionale austriaco. Riccardo Muti, l’Italiano, sussurra: “Non me la sento, dirò ai Wiener che è mia regola dirigere soltanto l’inno italiano. Ma lei mi deve promettere di non raccontarlo sul suo giornale: è una cosa mia, intima, che resa pubblica potrebbe essere interpretata come smania di protagonismo. Ho la sua parola? Grazie”. Oggi il cronista ritiene giusto infrangere quel patto di ventuno anni fa. Chiedendo tardive scuse al Riccardo Muti maestro toscaniniano di arte e italianità.