Il Maestro a Ravenna mette in scena la “Traviata” con i ragazzi selezionati della Italian Opera Academy – Direttore generale Domenico Muti

«Siete voi giovani la speranza di domani» dice allo scoccare del suo 75esimo compleanno. Riccardo Muti nasceva a Napoli il 28 luglio 1941. Da 49 anni frequenta podi di mezzo mondo, il mezzo che conta. Approdava giovanissimo al Maggio Musicale Fiorentino, quindi alla Scala, ora è alla guida della Chicago Symphony. Matrimoni importanti, e collaborazioni con orchestre e istituzioni di punta, tra cui gli amati Wiener Philharmoniker.

Come festeggia Muti? Con i suoi ragazzi. Quelli dell’Orchestra Cherubini e dell’Italian Opera Academy, la bottega che forgia cantanti, maestri collaboratori e soprattutto direttori d’orchestra. Un’istituzione con quartier generale a Ravenna, Muti al timone, il figlio Domenico Muti al management e una leggenda come Renata Scotto quale docente di canto. Nessun soldo pubblico: ma una cordata di privati.

Vi partecipano quattro direttori, altrettanti pianisti e dieci cantanti; in questi giorni stanno costruendo, battuta dopo battuta, la Traviata di Verdi. I prescelti lavorano in palcoscenico. Nei palchi e in platea, decine e decine di ragazzi annotano su taccuini e partiture i suggerimenti del Maestro.

In camerino, il pellegrinaggio di quanti orbitano, a diverso titolo, nel mondo della musica. Si va dal direttore dell’archivio del Musikverein di Vienna Otto Biba, al sovrintendente della Scala Alexander Pereira. Forse si discute del futuro titolo operistico alla Scala? «Nessun titolo, diciamo che Pereira si butta in avanti… è molto carino», glissa Muti che tornerà alla Scala il prossimo gennaio alla testa della sua Chicago, ma lo si attende per un’opera. «Da un punto di vista musicale, la Chicago è la gioia di questi miei anni». In più, la soddisfazione di crescere giovani cui dedica un mese all’anno, e giornate che vanno dal mattino al tramonto. «Considerate questo tanto lavoro? A parte il fatto che poi, a casa, vado avanti a studiare, quindi la giornata non finisce lì. Ma è così che si dovrebbe lavorare nei teatri.

Quando ero alla Scala dedicavamo un mese alle prove col pianoforte. Solo così si costruisce un’opera». Ora? «Tanti cantanti si lamentano che le prove sono quasi sparite. I divi, ma sottolineo non con me, si presentano solo alle prove generali». Muti scommette sui giovani, li segue con piglio, alleggerisce con battute e aneddoti, ma talvolta alza gli occhi al cielo: «Siamo in un altro mondo cara Renata (Scotto, ndr)» dice osservando una orchestrale che mastica vistosamente il suo chewing gum. Idem quando un cantante, in segno di approvazione, allunga i due pollici, stile Fonzie. «Il mio maestro Votto – continua Muti – quando riceveva noi studenti diceva: “Forza, avanti un altro fesso”». Ragazzi – comunque – che cantano e dirigono con timore reverenziale.

Probabilmente andrà subito a studiarsi la nostra lingua Dawid Runtz, il direttore polacco che non conosce l’italiano: «Forza Chopin, sei alto, bello, ma stai più dritto. E soprattutto devi imparare l’italiano se vuoi dirigere l’opera italiana». È tutto concentrato sul movimento del braccio Alberto Maniaci. Muti lo ferma: «Ci sono passato anch’io. So benissimo che all’inizio siamo molto preoccupati della gestualità, ma così non sentiamo bene quello che succede in orchestra, so anche che vi sono orchestre mediocri che si divertono a suonare note sbagliate per vedere se il giovane direttore capisce. Devi liberarti dalla preoccupazione della tecnica, solo così le orecchie si apriranno». E ancora. «La nostra maniera di dirigere è improntata a un abbraccio dell’orchestra. Non chiuderti in te stesso. Devi avere un atteggiamento di apertura verso di loro. E guarda sempre fino in fondo. Ci sono direttori che guardano solo i violini e dimenticano il resto della famiglia orchestrale». Quindi sprona i cantanti ad essere attori, a recitare ogni parola: «La parola dice tutto, per questo dovete sputarla, articolarla, dirla bene». Arriva la sferzata al critico, o meglio, sedicente tale. «C’è chi scrive “il direttore seguiva bene i cantanti, li faceva respirare”. La musica si fa assieme, non si segue nessuno. E poi, “far respirare il cantante”. Cosa dovrebbe fare un direttore, mettere un tubo d’ossigeno al cantante?». E narra l’aneddoto di un pianista che disse a Beniamino Gigli, «Commendatore, fossi in lei, qui prenderei un respiro». E il cantante, inguaribile divo: «Prego, respiri». Si incupisce quando il ragazzo cinese non sa chi siano né Gigli né Battistini. «Però sai chi è Bocelli, giusto?», incalza Muti. «Yes», risponde sorridente Jiao Yang. «La colpa è la nostra», spiega durante l’intervallo. «Stiamo tradendo il nostro passato». Un passato fatto di registi come Giorgio Strehler, per esempio. «Ora abbiamo registi che fan fare la pizza a Violetta, ambientano opere in ospedali, e cliniche… ».

Per questo Muti ormai solo raramente fa opere in forma scenica. Questo accadrà il prossimo anno a Salisburgo, dove è attesa una sua Aida per la regia della iraniana Shirin Neshat. «Lo scontro fra Aida e Amneris è di religione, razza, dunque attuale. Bisogna partire da lì, non certo dal Trionfo. Il vero trionfo è la musica». Il compositore del cuore. Non glielo chiediamo. Lo sappiamo. Giuseppe Verdi.

Dall’articolo di Piera Anna Franini, il Giornale, 28 luglio 2016

 

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