Finisce l’era Muti a Chicago, nel segno di Beethoven

Nicola Cattò | Rivista Musica, settembre 2023

‘‘Il messaggio di un genio la cui sofferenza è immensa’’: Muti e la Missa solemnis

Pochi giorni prima di recarmi a Chicago, ho avuto una lunga conversazione telefonica con Riccardo Muti, volutamente focalizzata sul suo ritorno, dopo le esecuzioni dell’agosto 2021, alla Missa solemnis di Beethoven: tre concerti che – assieme alla serata nel Millennium Park del 27 giugno – segnano la fine del suo mandato come Direttore Musicale della gloriosa orchestra statunitense, dopo 13 anni.

Studiava la Missa solemnis da mezzo secolo, eppure non si decideva a dirigerla: quale il motivo di questi dubbi, condivisi con tanti direttori nella storia? E cosa le ha fatto cambiare idea?
La mia prima partitura porta la data del 1972, quando ero direttore al Maggio Fiorentino: ogni musicista che abbia studiato seriamente composizione (e lo sottolineo) deve analizzare la forma, l’architettura, il contrappunto e l’armonia di questa messa. E` un obbligo. Ma da lì a dirigerla… ci passa un mondo. Quindi l’ho analizzata a fondo e l’ho trovata misteriosa, e più la studiavo più trovavo che eseguirla fosse al di fuori delle mie capacità, vista la complessità di una struttura musicale che va verso le vertigini della metafisica. Ero troppo inesperto, troppo ‘‘piccolo’’ e ho accantonato la partitura: lo stesso mi era successo con la Nona di Beethoven, che ho diretto la prima volta solo dopo i 45 anni quando mi accostai all’intero ciclo a Philadelphia, in vista dell’incisione. Anche lì, quell’inizio ‘‘cosmico’’ e il terzo movimento mi sembravano impossibili da portare dalla carta alla vita sonora: mi sentivo inadeguato a dirigerla. Ma si tratta di partiture che, se un musicista è onesto, non potranno mai farci sentire del tutto a nostro agio. Karajan disse a un giovane direttore che, dopo che avrà diretto la Nona almeno venti volte, dovrà buttare via e dimenticare quelle prime esecuzioni, perché saranno state un mero cammino verso un inizio accettabile. Tornando alla Missa, dopo qualche anno comprai un’altra partitura, poi Vittorio Gui mi regalò una copia di una delle primissime edizioni a stampa, e infine mi procurai il facsimile del manoscritto, che tengo a casa in bella vista: gli anni passavano, la mia esperienza aumentava (ma non è detto che questo faccia migliorare i musicisti: talora è il contrario), e io continuavo a prenderla in mano e lasciarla. Ma prima della conclusione del mio mandato alla Chicago Symphony, mi chiesero di dirigerla finalmente e mi lasciai convincere: per colpa del Covid i concerti programmati non si tennero e furono i Wiener e Markus Hinterhauser, direttore artistico del Festival di Salisburgo, dopo il successo della Nona, a chiedermi di farla in quell’ambito. Piacque molto a pubblico e critica. Ora finalmente la dirigerò a Chicago, ma ciò non vuol dire che mi senta più a mio agio: il segreto della Missa sta in questa adesione verticale di note e parole, tanto che Beethoven, per penetrare a fondo nel testo latino, acquistò due vocabolari, per non fermarsi al significato vago della parola. Questo ha conseguenza nella fattura contrappuntistica che permea la partitura, in modo sofferto, dall’inizio alla fine, che porta modulazioni impreviste ed imprevedibili. La sofferenza umana di Beethoven si riversa nel testo liturgico.

Mi può fare qualche esempio?
Si tratta di una delle rarissime messe in cui la parola ‘‘Kyrie’’ non inizia sul battere, sul tempo forte: l’implorazione è estremamente drammatica, come un urlo disperato. Poi, nel ‘‘Gloria’’, la parola ‘‘Miserere’’ a un certo punto diventa ‘‘Oh, Miserere!’’, parola che non esiste nel testo liturgico, e rende il tutto ancora più doloroso, più commovente, che dimostrano lo stato d’animo e fisico di Beethoven, la cui vita era diventata penosa (la sordità, i problemi col nipote…). Senza parlare delle grandi fughe, che sono il trionfo del contrappunto, o del ‘‘Benedictus’’, di solito uno dei momenti più dolci e intensi nelle Messe, che qui è caratterizzato da un lungo assolo del violino, come una voce angelica che gira intorno al testo. Il ‘‘Sanctus’’ e` di solito un momento altisonante, trionfale, mentre qui è sommesso, legato al concetto di ‘‘non nominare il nome di Dio invano’’, che sfocia in un breve interludio sinfonico criptico, misterioso, pieno di modulazioni che sembrano anticipare il mondo sonoro mahleriano nella evoluzione armonica. Andando al finale, c’è il famoso intervento di trombe e timpani…

Che alcuni accostano alla Missa in tempore belli di Haydn…
Non ci ho pensato, può essere. Ma certamente c’è come un furore battagliero, un intervento del mondo esterno in quello interno. E infine le ultime pagine, così diverse da tutto quanto ascoltato prima, che però finiscono ex abrupto, senza il ‘‘gran finale’’ che ci si aspetterebbe da una Messa solenne: compare il porto, e tutto finisce. Ecco, mettere insieme tutto questo richiede molto studio, molta sofferenza e molta umiltà. L’interprete sta bussando alla porta di un tempio che è difficile, anzi impossibile da espugnare. E mi sorprende vedere direttori giovanissimi, sotto i 30 anni, che si accostano a questa partitura: tecnicamente è relativamente facile, ma entrare in profondità nel testo e nella musica è un’altra cosa, praticamente impossibile.

La Missa si inserisce in una fase di passaggio della storia della musica in cui la musica sacra non è più anche liturgica, i compositori perdono quel sistema di regole e linguaggi cui si erano affidati per secoli. Questo cosa comporta?
Non si può pensare, ovviamente, alla Missa solemnis come qualcosa di eseguibile in un rito liturgico: è il documento dell’immensa sofferenza di un uomo, che diventa universale. Non è né da chiesa, né da concerto: è musica in cui ognuno di noi può trovare sollievo alle proprie difficoltà. A livello pratico, poi, il contrappunto è così complesso che in una chiesa non si capirebbe niente per il riverbero; ma una sala da concerto rischia di essere fredda. E allora penso sempre a quello che mi diceva il mio amico Kleiber: ‘‘Caro Riccardo, ci sono musiche che è meglio lasciare sulla carta, perché portandole in vita perdono tanto’’.

Cosa emerge da questa partitura del rapporto personale di Beethoven con la religione cristiana, oppure si tratta di un’idea più ampia di religione dell’arte, metafisica?
Non credo che sia un documento su come lui sentisse la religione, ma semplicemente la testimonianza di un uomo: non userei la parola ‘‘laico’’, perché viene letta in chiave anti-religiosa, ma ho sempre sentito questa Messa come il grido di un uomo che invoca aiuto, che si rivolge alla trascendenza per avere quello che in terra non ha trovato. Non credo che ‘‘Kyrie’’ sia il Dio dei cristiani o dei Giudei, è un’entità astratta cui si rivolge guardando al cielo.

D’altronde quella frase in partitura ‘‘Dal cuore possa andare ai cuori’’ evoca un’entità metafisica che è la stessa della Nona sinfonia
Certo, ma anche all’inizio del ‘‘Kyrie’’ noi leggiamo ‘‘Con devozione’’, che è la chiave di lettura di tutta la Messa: un’indicazione per chi canta, suona, dirige. Ma devoti a che cosa? A qualcosa più alto di noi, che non conosciamo, ma che è l’ultima speranza di aiuto fuori da questo mondo, da questo ‘‘atomo opaco del male’’, come scriveva Pascoli.

C’è qualcosa in comune col Requiem tedesco di Brahms, altra partitura che lei ha aspettato molti anni a dirigere?
Vero, ho aspettato tanti anni ma in quel caso perché nella vita si fanno scelte diverse, come sa mi sono dedicato molto alla produzione sacra di Cherubini (le cui spoglie non dispero di riportare ancora in Italia: ci sto ancora lavorando); non saprei se ci sono elementi in comune, il Requiem di Brahms è di conforto per chi resta in vita, mentre quello di Verdi è per i morti. La Messa di Beethoven è qualcosa di altro, di diverso, che mette in musica l’espressione del dolore dell’uomo, e in questo senso si pone fuori dal tempo, proprio come la musica di Mozart (penso al ‘‘Soave sia il vento’’ dal Così fan tutte).

Cosa cambia affrontarla con i Wiener o la CSO?
A Chicago ho cercato di lasciare l’incredibile qualità tecnica, che la rende unica al mondo, ma portando un afflato mediterraneo ed italiano, che è evidente nel suono degli archi: in questo è stato essenziale fare qui in America tanto Verdi, nonché il ciclo delle sinfonie di Schubert, che fa cantare l’orchestra e che raramente si esegue al di là di Grande e Incompiuta (d’altronde oggi chi vuol fare carriera dirige solo musica roboante, Mahler e Shostakovich). I Wiener e la CSO sono mondi diversi: quando l’ho diretta a Salisburgo, anche i Wiener non la suonavano da molti anni, ed è stata una bellissima esperienza e cercherò di portare anche a Chicago alcuni risultati che ho ottenuto in Austria, senza però volere trasformare la personalità della CSO. Sarà diverso e stimolante.

Non è facile scegliere le dimensioni degli organici, in bilico tra esigenze di chiarezza e un certo peso sonoro necessario!
Anche le fughe, così complesse, devono conoscere, persino nel fortissimo, una leggerezza continua, senza pesantezze, senza nulla di eccessivamente germanico: non è un contrappunto freddo, scolastico, perché ogni parte ‘‘canta’’. Ed è uno dei miracoli della Missa solemnis. E parlando dei solisti, sono parti difficilissime, scritte come strumenti (ci sono persino salti di decima, che Verdi o Mozart non avrebbero mai concepito): per il soprano è una sfida continua, in particolare, e a Salisburgo Rosa Feola è stata meravigliosa.

Questi concerti segnano il suo addio come Direttore Musicale della CSO: ma il suo impegno proseguirà l’anno prossimo, e includerà un tour europeo (in Italia a Roma, Milano e Torino) che presenterà un programma molto italiano, con una composizione di Philip Glass dedicata a lei.
Di Glass ho già eseguito la Sinfonia n. 11, che è stata pubblicata in un CD di recente uscita, e abbiamo stabilito un’ottima intesa musicale: per questo ha deciso di dedicarmi un brano dal titolo The Triumph of the Octagon, perché nel mio ufficio a Chicago c’è la fotografia di Castel del Monte. Gli ho spiegato il senso delle otto torri, e lui ne è stato stimolato per scrivere questa partitura, a cui accosterò , in tournée, l’Italiana di Mendelssohn e Aus Italien di Strauss. Comunque non è un addio a Chicago: solo un arrivederci. L’orchestra mi ha scritto una lettera meravigliosa, un ringraziamento che è il dono più bello che io potessi ricevere, con tanti elogi a me come direttore e soprattutto come uomo.

Ma ha qualche rimpianto per questi anni a Chicago?
Certo, qualcosa si rimpiange sempre: ho portato tanta musica italiana (Martucci, Busoni, Bossi, Senigaglia) qui sconosciuta, e questo ha tolto spazio ad altri repertori. Ad esempio ho diretto pochissimo Wagner, cui vorrei dedicarmi in futuro quando tornerò come ospite, magari con singoli atti di opere: ad esempio il primo di Valchiria e il terzo di Parsifal.

tratto da
Nicola Cattò, Musica, settembre 2023


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