«La musica è impalpabile e va direttamente al cuore»

– Patrizia Viola | 14 luglio 2023

La Royal Jordanian, la compagnia aerea che lo ha riportato in Italia, lo ha ringraziato offrendogli una grande torta, per soggetto un articolo di giornale a lui dedicato, con tanto di fotografia «A nessuno è venuto in mente di mangiarmi la testa», ha scherzato li Maestro, seduto sui gradini del teatro grande di Pompei, dove due giorni fa ha concluso trionfalmente il concerto delle “Vie dell’amicizia”, un prestigioso appuntamento musicale, arrivato alla ventisettesima edizione. Questa volta si è trattato di un trittico che partito da Ravenna ha fatto tappa nel teatro romano di Jerash, in Giordania, città distrutta da un terremoto nel 747 e rimasta sepolta sotto la sabbia fino ad un secolo fa, per concludersi alla presenza del ministro dei Beni culturali Sangiuliano e del presidente della Campania Vincenzo De Luca nell’unicum di Pompei, altro luogo simbolo dell’architettura teatrale del mondo antico. Un teatro costruito nel II secolo avanti Cristo, che oggi rimanda un’acustica perfetta e un’emozione immensa.
«A Pompei ho fatto la Prima comunione, – racconta il Maestro – e tra questi resti venivo ai tempi in cui frequentavo il liceo Vittorio Emanuele». Il rientro a Napoli è il ritorno in uno dei luoghi del cuore, la città dove Muti è nato e dove è sbocciata la sua straordinaria carriera. Un altro è Ravenna, città natale della moglie Cristina, eletta a residenza E poi c’è la Puglia, la sua Molfetta: qui è nato suo padre, e qui ha trascorso l’adolescenza.
«E qui torno appena posso, A Pasqua, per la Settimana Santa, non manco mai. Mi definisco da sempre apulocampano – ci dice Muti, prima di iniziare una prova d’orchestra -, sono profondamente un uomo del Sud. Qui ci sono le mie radici». Difficile immaginare una coesistenza tra la dimensione internazionale, da star del podio, venerata e ricercata da tutte le orchestre del mondo, e quella più intima, privata, che sembra stare in pace solo a contatto con la natura.
Una volta, dopo un concerto nella cattedrale di Trani, proprio passeggiando nelle campagne intorno a Castel dei Monte, dove ha i suoi trulli, Muti confessò di sentirsi felice ogni volta che poteva riposare sotto un albero di ulivo o accanto ad un oleandro.
«Le stesse radici le ho trovate spesso nei nostri “Viaggi dell’Amicizia”, in terre sofferenti, terre dove spesso si è perso il senso dell umanità. Facciamo tutti parte di quel Mediterraneo, dove con forza i popoli cercano un riscatto». Riscatto che per Muti non può non partire dalla cultura. «Pensiamo a queste città antiche, Pompei, Jerash, e a molte altre che abbiamo visitato in questi anni. Oggi le ricordiamo per i loro luoghi di aggregazione e cultura. I Romani quando conquistavano un territorio, edificavano un teatro. Lo abbiamo dimenticato. La potenza della musica in questi viaggi fatti per il “Ravenna festival” ha lo scopo di unire popoli diversi», continua Muti, che dalla prima volta a Sarajevo nel 1997, non ha mai smesso di credere in questa missione. «Portare la musica in terre spesso martoriate è la testimonianza di quanto l’uomo possa fare, anche oggi, nonostante in certe parti del mondo si stia facendo molto male, ci sia la guerra, la musica ci dà un senso di speranza. Con la musica questo avviene senza difficolta, perché la musica parla con i suoni, una materia impalpabile che va direttamente al cuore».
Maestro, un concerto è anche lavoro, programma, sintesi di un pensiero.
«Per questo viaggio ho scelto Gluck, una pagina dall’Orfeo ed Euridice, è mitologia, un tuffo nel nostro passato, è leggenda, ma è anche la dimostrazione della potenza dell’amore. Orfeo sfida i mostri e le furie per ritrovare Euridice, l’oggetto del suo amore. Poi c’è Bellini, con l’invocazione alla luna di Casta Diva, dalla Norma, pagina a cui si inchinava anche Wagner; lo considero un inno del nostro Mediterraneo. E ancora il Canto del destino di Brahms, una delle pagine più straordinarie del repertorio sinfonico corale, dove si capisce esattamente, anche attraverso la nostalgia e la violenza del brano, che abbiamo bisogno di un destino che ci sorrida».
Negli intermezzi tra i tre brani scelti si sono esibiti cantanti e musicisti siriani e giordani, che hanno portato alcune canzoni della tradizione araba.
Muti il mese scorso ha concluso, dopo tredici anni, il suo rapporto di direttore musicale della Chicago Symphony Orchestra, che lo ha nominato direttore onorario a vita, ma tutto farà tranne che riposarsi. La sua agenda per i prossimi tre anni e piena.
«Le orchestre si sono fatte avanti, con i Wiener ho impegni fino al 2o28, senza dimenticare che già a settembre tornerò a Chicago, e sempre con loro in gennaio verrò in tournee in Italia».
Maestro, potrebbe tornare anche a Bari?
«Forse, potrebbe essere in programma. E una città che amo molto, è la città del mio incontro con Nino Rota, uno dei miei maestri». E a questo proposito Muti racconta un aneddoto particolarmente caro, dei tempi in cui il compositore lo esaminò al quinto anno di pianoforte. «Rota era direttore del Conservatorio di Bari, e mi disse che la commissione mi aveva dato dieci e lode: non per come hai suonato oggi, ma per come potrai dirigere domani».
Tra ricordi, battute, incontri istituzionali, tra cui una cena privata con il ministro Sangiuliano, il Maestro saluta e si rimette in viaggio per Ravenna. Il 20 luglio è in programma un altro concerto.
«Io ho combattuto tutta la vita, ho predicato fino alla noia la necessità di dare più spazio alla cultura, alla musica, all’insegnamento per nostri giovani. Sto arrivando al traguardo, e a volte mi incupisco. Spero che prima di lasciare questo mondo si possa vedere una specie di rinascita per le generazioni future».

Patrizia Viola, Corriere del Mezzogiorno, 14 luglio 2023

E Muti incanta: “suona” l’amicizia nel Teatro Grande

– Paolo De Luca | 13 luglio 2023

In questi giorni, a Pompei, la temperatura media dopo il tramonto non scende sotto i 29 gradi, con un’umidità media del 70 per cento. Per non parlare delle pietre degli scavi, sempre roventi. Ma il caldo non ha fermato 1500 persone martedì sera per il concerto di Riccardo Muti nel Teatro Grande. Un sold-out annunciato: il maestro ha incantato il pubblico, ottenendo lunghi minuti di applausi e una standing ovation. E stata un successo l’esibizione de “Le vie dell’Amicizia”, il progetto del Ravenna Festival, che, dal 1997, valorizza le città simbolo della storia antica e contemporanea attraverso la musica. L’evento, finanziato dall’albergo “Caruso, a Belmond Hotel” di Ravello e sostenuto dal ministero della Cultura e degli Esteri, ha raggiunto in Campania dopo una precedente nel teatro romano di Jerash (in Giordania) e nel campo profughi di Za’atari, a dieci chilometri dal confine siriano. Sul palco pompeiano, ancora una volta, l’Orchestra giovanile Luigi Cherubini, col coro Cremona Antiqua, guidato dal maestro Antonio Greco. I proventi dai biglietti permetteranno al Parco archeologico «di investire oltre 50mila euro in laboratori didattici e progetti per il territorio». Uno di questi è “Sogno di Volare”, progetto rivolto agli studenti (e premiato dal successo di due edizioni), per avvicinarli al patrimonio culturale del luogo, attraverso arte e teatro. Tra gli acquirenti del ticket a sostegno dell’iniziativa anche l’ospite d’onore della serata, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Molte le autorità invitate, tra cui il governatore Vincenzo De Luca, il prefetto Claudio Palomba, il consigliere del ministro Luciano Schifone e il sottosegretario Gianmarco Mazzi. Presenti, poi, il rettore della Federico II Matteo Lorito e numerosi direttori di musei e siti archeologici, campani e non: da Alfonsina Russo per il Colosseo, a Francesco Sirano per Ercolano, Tiziana d’Angelo per Paestum e Velia, fino a Marta Ragozzino per la Direzione regionale dei Musei e Sylvain Bellenger, a capo di Capodimonte. Immancabili i direttori generali, rispettivamente per i Musei e per Archeologia e Belle Arti, Massimo Osanna e Luigi La Rocca. Assente il padrone di casa, Gabriel Zuchtriegel. Di poche parole invece Muti, che, dopo una direzione impeccabile, si è limitato a salutare il pubblico, senza concedere il bis. La causa è stata, forse, il troppo caldo. Nei giorni scorsi, Muti aveva ribadito quanto fosse legato a queste terre, fin dall’infanzia: «A Pompei – ha ricordato – andavo da ragazzo, quando ero studente del liceo Vittorio Emanuele e nel santuario ho fatto la prima comunione: in questi luoghi affondano le nostre radici». Il programma del concerto (della durata di due ore) è iniziato con l’Inno di Mameli, ha incluso il secondo atto da “Orfeo ed Euridice” di Gluck con il controtenore Filippo Mineccia. Ancora, “Casta Diva” dalla “Norma” di Bellini, col soprano Monica Conesa e “Schicksalslied” di Brahms. Spazio, poi, agli artisti siriani Mirna Kassis e il controtenore Fraincois Razek-Bitar ed ai giordani Ady Naber (tenore) e Zain Awad. Tra i loro canti, la bellissima “Ula-ikal Mansiyouna ala difaf al furat”, con musiche su un testo di una antica poesia siriana della regione di Jazeera, fra il Tigri e l’Eufrate.

Paolo De Luca, La Repubblica (ed. Napoli), 13 luglio 2023

«Questa è casa mia: il cuore parla meglio»

– Donatella Longobardi | 12 luglio 2023

Pompei s’accende, il Teatro Grande applaude Riccardo Muti tornato a dirigere sotto il Vesuvio. “Questa è casa”, dice il maestro napoletano evidentemente commosso alla fine di un tour de force che lo ha visto in pochi giorni sul podio prima a Ravenna, poi a Jerash in Giordania, infine a Pompei. Occasione l’annuale «Concerto dell’amicizia» del «Ravenna festival», un ponte di note nel segno della pace e della solidarietà che dal 1997 unisce alla capitale bizantina della Romagna realtà difficili o tormentate dei nostri giorni. Non a caso Muti ha scelto in questa edizione di visitare la Giordania e il campo profughi Unhcr di Za’atari, da 12 rifugio di disperati che fuggono dalla guerra in Siria, ma anche da molti altri paesi africani. E non a caso ha portato la musica nel campo e tenuto un concerto nell’antica città romana di Cerasa, Jerash, la Pompei araba, sepolta per secoli sotto la polvere del deserto prima di essere oggetto di scavi. Muti ha suonato in un teatro dalla forma e le dimensioni simili al teatro pompeiano come ha evidenziato il di rettore dei parco archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, in prima fila nella organizzazione dell’evento. In Giordania la scena è intatta, le pietre delle gradinate sconnesse. Qui la suggestione del Vesuvio, l’atmosfera rarefatta dal caldo, le gradinate piene creano un’atmosfera particolare, non mancano il governatore De Luca (con cui ha avuto un colloquio privato) e il ministro Sangiuliano: «Conosco il maestro da tempo, quando consegnarono a lui e a me nella stessa occasione il Premio Elsa Morante a Procida. Sono un suo estimatore, lo inviteremo a ritornare a Napoli, al San Carlo». In platea anche Miuccia Prada, Sylvain Bellenger, Alessio Vlad, Ruggero Cappuccio, Maurizio Pietrantonio, Dino Falconio, Massimo Osanna. La cavea sgombra chiude come in un catino 92 musicisti dell’Orchestra Giovanile Cherubini, cui, come tradizione nei «Concerti dell’amicizia». si aggiungono elementi dei Paesi che si visitano, in questo caso 9 giordani. Si ripete il programma di Ravenna e Jerash, Brani dal secondo atto di «Orfeo» di Gluck, poi «Casta diva» dalla «Norma». Muti scende dal podio e lascia spazio a musicisti siriani e giordani che eseguono musica tradizionale e un antico canto della regione tra il Tigri e l’Eufrate. Muti conclude con «Il canto del destino» di Brahms. E la commozione si fa tangibile. Il pubblico di Pompei tributa una standing ovation al maestro, stanco, ma felice: «Il senso di questi viaggi dell’amicizia è proprio creare un rapporto tra persone che parlano lingue diverse, hanno culture diverse e vivono realtà diverse ma sono accomunate dal sentire parlare il cuore attraverso la musica», ripete Muti. Anche se qui, a Pompei, c’è un elemento in più perché Napoli è vicina e il rapporto del maestro con la città dove è nato è sempre più importante. ll concerto di Pompei con immagini registrate anche in Giordania sarà trasmesso da Raiuno il 5 agosto in seconda serata.

Donatella Longobardi, Il Mattino, 12 luglio 2023

L’abbraccio di Muti ai profughi in Giordania

– Stefano Marchetti | 11 luglio 2023

Stefano Marchetti, QN, 11 luglio 2023

Il concerto di Muti a Jerash: la musica, ponte tra i popoli

– Valerio Cappelli | 11 luglio 2023

L’appuntamento in Giordania, vicino ai campi dei profughi siriani
Armati Saleh ha 16 anni, gli chiediamo: «Dove ti senti a casa?». «Non lo so», risponde. Nel campo profughi di Za’tari vivono 8omila siriani fuggiti dalla guerra, metà ha meno di 18 anni. La UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ci lascia parlare con chi vogliamo, al campetto di calcio, con coloro che ascoltano musica tradizionale araba mischiata agli ottoni dell’Orchestra Cherubini che suonano Azzurro e Volare.
E’ il prologo potente del concerto di Riccardo Muti nel sito archeologico di Jerash, che stasera si replica al Teatro Grande di Pompei, per il ciclo Le vie dell’Amicizia del Ravenna festival. Il programma, nei due teatri romani, raduna il second’atto di Orfeo e Euridice di Gluck, Casta diva che Muti interrompe per non sovrapporsi al canto del muezzin e Das Schicksalslied di Brahms, con la sua inquieta malinconia: il Canto del destino già nel titolo incarna l’essenza dell’evento. E un gioco di specchi «che unisce mitologia e leggenda», dice Muti. Il neoclassicismo di Gluck, luce e tenebra sul ricongiungimento dei due amanti, rimanda ai familiari in fuga da Damasco e Aleppo che si cercano, e tutto mostra «quanto l’amore possa fare, malgrado il mondo stia andando verso il basso. Siamo qui per rendere omaggio a un paese, la Giordania, che aiuta chi soffre e scappa dalla violenza della guerra. La cultura unisce l’umanità e la musica è condivisione, se c’è la volontà si può fare tutto, ma se la tecnologia e la violenza prenderanno il sopravvento, non ci sarà più niente da fare», dice il maestro. Ecco voci siriane della diaspora o giordane che cantano l’esilio, «raccontami del mio paese, della brezza che soffia tra gli alberi, della mia famiglia, della mia casa». Queste voci, che hanno trovato una nuova vita in Italia, si uniscono a musicisti rifugiati del campo, uno di essi ha imparato a suonare il violino su YouTube, sorride mentre riceve in dono strumenti tradizionali, come l’oud, il liuto a manico corto. E intanto racconta la vita del campo, a 15 km dal confine con la Siria e a poco più di 100 da Gerusalemme. Sul bordo di un cratere dove ogni nemico quasi si tocca, vivono in casupole con foglie di lamiera, una piccola parte di essi ha la tv, e soltanto 4 mila, su 8o mila, hanno il permesso di lavorare. C’è un futuro? «Non c’è un futuro: questo è solo un posto sicuro», dice Mahmoud Ahmad Kishref. Ha 45 anni, 5 dei suoi 8 figli sono nati nel campo, dove vive da 11 anni. Ci sono due sorelle single: «E terribile vivere qui, gli uomini ci disturbano in continuazione». Si avvicina una giovane col velo, ed è un atto di coraggio da queste parti per una donna, si aiuta col traduttore simultaneo sul cellulare, ci prega di mettere per intero il suo nome, Rania Mohamed Algadry, un disperato messaggio nella bottiglia: «Vivo qui da dieci anni e non sono mai uscita». Cosa fai tutto il giorno? «Niente. Il visto per l’estero costa tanto e non ho soldi. Sono con due fratelli più piccoli e mia madre. Sogno di andare in Europa, vi prego, aiutatemi».
Sotto l’ombrello dell’autorità giordana, a Za’tari ci sono 3o organizzazioni umanitarie. Passano davanti a noi rifugiati su un carretto trainato da un asino, e un risciò con una strana poltrona, e raccontano di scuole e ospedali, e dei due laboratori musicali, uno anche come terapia. Vendono piccoli manufatti nel viale chiamato Champs-Élysées. E una battaglia quotidiana per la sopravvivenza. E un mare di gioventù, tenerezza e sorrisi, chiedono di poterti fotografare, tutti sanno a memoria una parola, «travel», viaggiare, che ripetono come un mantra. Fuori, accanto alle barriere della gendarmeria, murales, filo spinato, bici abbandonate e polvere, tanta polvere. Le guardie sono gentili, pregano con i rifugiati, all’ora del Corano. Una donna con i suoi tre bambini esibisce, in una lunga attesa, il documento per rientrare al campo, circondato dal deserto roccioso.

Valerio Cappelli, Il Corriere della Sera, 11 luglio 2023

Muti dirige tra i rifugiati “La musica passa dal cuore fa del bene senza proclami”

– Anna Bandettini | 11 luglio 2023

Cominciamo dai bambini: vestiti a festa, cantano e si fanno le foto col maestro, mentre gli uomini ballano in circolo e le donne registrano tutto con il cellulare. La musica ha fatto ancora una volta centro, “con il suo sentimento di fratellanza”. Dice Riccardo Muti: «Nel momento in cui in tante parti del mondo l’uomo si fa tanto male, qui è la prova che si può fare del bene e che la musica lo fa senza proclami; passa, come diceva Beethoven, dal cuore al cuore, ma spesso, i governanti con Beethoven hanno in comune solo la sordità». Il direttore d’orchestra lo dice dopo aver assistito a uno scambio musicale tra siriani e otto musicisti della sua orchestra Cherubini, canzoni della tradizione mediorientale e Romagna mia, in uno dei più grandi campi profughi del nostro tempo, Za’atari, nel nord della Giordania, 80mila profughi in maggioranza della Siria in guerra che dista solo 15 chilometri: una città reticolata di container gestita dal governo giordano e dalla Unhcr che il maestro ha voluto visitare per solidarietà. L’occasione è venuta dal nuovo viaggio musicale delle “Vie dell’Amicizia” organizzato con il Ravenna Festival, dal ’97, nei luoghi con conflitti e crisi umanitarie. Quest’anno il concerto ha unito l’orchestra Cherubini e il Coro Cremona Antiquae con musicisti giordani e, dopo il debutto a Ravenna, e la conclusione di stasera a Pompei dove è annunciato il ministro della Cultura Sangiuliano, ha avuto il suo momento solenne nell’anfiteatro dell’antica città romana di Jerash, davanti a mille spettatori e un gruppo di rifugiati con permesso, preceduto dalla emozionante visita, fortemente voluta da Cristina Mazzavillani, la moglie di Riccardo Muti, appunto nel campo di Za’atari, una città che dà rifugio e insieme rinchiude, dove i rifugiati siriani vivono in condizioni difficili, lavori precari o nei negozi, duemila, che hanno aperto dentro il reticolato in una zona chiamata, con gusto ironico, Champs-Élysées e dove tutti vogliono andar via. «Qui non c’è futuro, è solo un passaggio per la salvezza, per l’Europa e per gli Stati Uniti», confessa Mahmoud Kishref, da dieci anni nel campo da cui molti dei 23mila bambini non sono mai usciti. L’incontro con Muti è stato un regalo. «Siamo qui – ha detto il maestro, prima del concerto di Jerash, applaudito dal pubblico – per onorare questo Paese che accoglie. Spero sia d’esempio per altre nazioni e che per le generazioni future ci sia una rinascita, senza il sopravvento della rabbia o l’abuso della tecnologia sulla spiritualità». E spirituale, inusuale, è stato proprio il programma che ha proposto dal podio: il II atto da Orfeo ed Euridice di Gluck, con il controtenore Filippo Mineccia, «dimostrazione di cosa è la potenza dell`’amore», Casta diva dalla Norma di Bellini con il soprano Monica Conesa, e la chiusura con la straordinaria pagina sinfonico-corale di Schicksalslied di Brahms. In mezzo gli artisti siriani Mirna Kassis e Francois Razek-Bitar, bravissimi, e le voci giordane Zain Awad, la Pausini locale, e Ady Naber hanno cantato brani delle loro tradizioni, su una materia, però, che qui brucia, la propria terra. «Io ho un sogno da direttore – ha riconciliato tutti Muti mettere insieme le culture del Mediterraneo, Spagna, Italia, Marocco, Giordania… Paesi dove c’è l’olivo, simbolo di pace».

Anna Bandettini, la Repubblica, 11 luglio 2023

Musica senza frontiere

– Michela Tamburrino | 11 luglio 2023

E poi c’è la musica e tutto il resto, tace. Il canto dei muezzin che chiama alla preghiera proprio mentre Norma sta per invocare la casta diva, la dea argentea. Dal cuore al cuore, diceva Beethoven, l’inno nazionale giordano che si fonde con quello italiano, i musicisti dell’orchestra Giovanile Luigi Cherubini con i coetanei dell’orchestra del Conservatorio Nazionale di Amman e insieme con il coro Cremona Antiqua. Gluck e Orsho, Bellini, Brahms e Rahabani. Un teatro aperto sulle vestigia di uno dei più antichi insediamenti romani, spalancato sulle porte di Adriano. Ecco che il desiderio del maestro Riccardo Muti l’altra notte si è concretizzato sulle Vie dell’Amicizia, o come dice lui, «musica che il mondo delle culture mediterranee vuole unite, lì dove i fiori ancora nascono spontanei dei colori più incredibili e l’ulivo è ancora simbolo della pace. Un mondo dove i robot non hanno sostituito il gesto dell’uomo, un mondo nel quale la potenza si rivela nell’unione, simbiosi spirituale e individuale».
Qui, in Giordania, il maestro Muti può dire soddisfatta la sua speranza, musica che ha trovato la sua terza lingua per dialogare e capirsi alla perfezione. Tutto nasce dal progetto del Ravenna Festival che punta a valorizzare i siti simbolo della storia antica e contemporanea. Il trittico di concerti giocato tra Ravenna, Jerash e Pompei, fa parte del Ravenna Festival che quest’anno rende omaggio, nel centenario della morte, a Calvino e dunque s’intitola Le città invisibili. Allora Jerash e Pompei, tutte e due sepolte, una dalla cenere e l’altra dalla sabbia del deserto, distanti ma patrimonio archeologico senza tempo.
Invisibili le città, invisibili i rifugiati che si aggirano come spettri nel campo profughi siriano Zaatari al confine della Giordania. Ogni cosa è organizzata per gli 83mila ospiti, la metà minore di 18 anni. 23mila bambini che non hanno grandi speranze di vita normale e quando vedono un volto nuovo sembrano non volerlo più abbandonare. Un campo Unhcr a 15 km dalla Siria, 5,3 chilometri quadrati di baracche con supermercati, un sistema bancario, duemila negozi allestiti in quella che per feroce ironia viene chiamata Champs Elysees, allo scopo di accontentare 18 mila gruppi familiari. Sostenibilità e inclusione, parole che in questo con- testo stridono. Si lavora nel campo, si studia e si lavora fuori dal campo. Una vita normale ma il rientro è tassativo alle 16:00 e il filo spinato sta a significare che non ci si muove a piacimento. Organizzazione perfetta come avviene nei campi comunque si vogliano chiamare. Tutti sognano di andar via ma un visto per il rifugiato costa diecimila dollari. Che futuro vedete qui? «Qui non c’è futuro, è solo un posto sicuro per poi raggiungere il futuro vero. La nostra sola speranza è fuggire». Mahmood questa speranza la nutre da dieci anni. Suona l’oud, una sorta di liuto ma è solo un hobby, lui insegna sport. L’altra sera però ha partecipato al concerto suonando musiche tradizionali siriane, mentre Mirna Kassis e Francous-Razek Bitar hannp dato suggestioni alal voce dell’esilio e il quintetto di ottoni della Cherubini ha proposto Azzurro, Nel blu dipinto di blu e Romagna mia, in onore del maestro che ha regalato strumenti musicali a questi ragazzi con l’hobby della vita. Cristina Muti, la moglie del maestro, è particolarmente sensibile alle istanze dei rifugiati e ha espressamente voluto che questa serata d’incontro ci fosse. Loro hanno ballato fino a notte tarda, come se fosse una notte di una vita normale. Mahmood e i suoi amici, comprese le due sorelle nubili che al campo hanno perso la mamma e confessano una vita difficile per chi non ha un marito a protezione. Si suona al campo di calcio attrezzato con seggioline oro e rosso carminio, (gli uomini a destra, le donne a sinistra). Se ne è presa cura l’ambasciata italiana che a breve inaugurerà anche la scuola di restauro di Jerash, sovvenzionata dall’Italia. I Giordani, interpretati senza giri di parole dal ministro del Turismo e Beni Culturali Makram Al Queisi, ci tengono molto a dire che il loro paese è moderno, che i loro ministri sono cattolici e musulmani eppure convivono perfettamente, che la loro terra è culla di cristianità, che qui venne Gesù e Giovanni Battista eppure non arrivano neppure alla metà dei turisti di Lourdes che ha fatto del paese di Bernadette Soubirous e delle visioni mariane una «Disneyland della fede».
Il maestro ha invece ribadito quello che è un suo credo da sempre: «Possiamo chiamare Dio in differenti modi e nomi ma la sia emanazione sta nel vederci tutti fratelli. Le braccia sono l’estensione della mente, diceva Toscanini e quando si suona questa teoria diventa pratica di bontà. Musica senza proclami. Ho scelto di portare Gluck che con Orfeo svela la potenza dell’amore e nel campo profughi acquista un significato ancor più sacro. Bellini e la casta luna, l’inno del Mediterraneo che ci guarda e ci accompagna, segnale di quanto sia importante la nostra cultura e il Canto del Destino di Brahms, perché abbiamo bisogno di un destino che ci sorrida, sia pure melanconicamente. Tutto è molto commovente qui. Io ho combattuto tutta la vita ma sto arrivando al traguardo e mi incupisco, spero che prima di andare via possa vedere una rinascita per le generazioni future. Se la violenza e la mancanza di cultura dovessero prendere il sopravvento, allora vorrebbe dire che non c’è più niente da fare». Scambio di regali sul palco e Muti avvolto nella bandiera Giordana. Standing ovation per lui, musicisti, coro e talentuosi cantanti solisti. Replica stasera a Pompei.

Michela Tamburrino, La Stampa, 11 luglio 2023

L’amicizia fra i popoli passa dalla grande musica

– Piera Anna Franini | 11 luglio 2023

Fiocchi tra i capelli, pizzi e fru fru per le bimbe, le giovinette in fiore rimarcano i grandi occhi mediorientali, bellissime anche per quel fare discreto d’altri tempi. Le signore sfoggiano foulard colorati, finti Dior, finti Chanel, finte le borse, ma tutto – vero o taroccato – esprime il desiderio di onorare un momento speciale. Donne a destra, corridoio spartiacque in mezzo, uomini a sinistra, questa la platea di sabato per un momento musicale offerto dalle Vie dell’Amicizia del Ravenna Festival. Il campetto di calcio del campo profughi di Zaatari è stato infatti convertito in una sala da concerto, sul palco ci sono gli ottoni dell’Orchestra Cherubini in alternanza con l’ensemble di rifugiati siriani. Siamo in Giordania, a cinque chilometri dalla Siria, lo Stato da cui provengono gli 83mila esuli accolti a Zaatari, 23mila dei quali nati negli undici anni di esistenza di questa realtà cresciuta al punto da diventare una città con 2mila negozi, 32 scuole, ospedali: su uno sventola la bandiera italiana. Chi vi entra non lascia ogni speranza, sebbene i fatti non alimenterebbero tanto ottimismo, tutti aspirano a trasferirsi in Europa, Canada, USA e Australia. Questo il sogno, realizzato da pochissimi. La Siria è l`incubo. Tornare in patria? Neanche a parlarne, è la replica corale alla domanda sulle prospettive future.
In prima fila siede Riccardo Muti che l’indomani ha diretto la Cherubini e il Coro Cremona Antiqua nel teatro romano della Pompei del Medioriente: Jerash. Scorrono pagine di Gluck (II Atto dall’Orfeo ed Euridice), chiusura con il Canto del destino di Brahms, in mezzo brani locali interpretati – fra gli altri – da Mira Kassis, di Damasco però accasata a Genova. L’orchestra introduce l’aria dalla Norma di Bellini, Casta Diva, ma affiora il canto del muezzin che richiama alla preghiera. Muti sospende l’esecuzione, i melismi del muezzin sfumeranno negli arabeschi della preghiera della sacerdotessa Norma. E l’«amicizia» dei due mondi è fatta. Momento speciale che non si replicherà nel concerto di stasera, a Pompei. Le vie dell’Amicizia, pellegrinaggi musicali dal 1997 capitanati da Muti, sono giunte tra le antichità romane ricordando un presente fatto di gente che fugge da conflitti e trova la salvezza in Giordania. Qui per dimostrare che «la musica dà la possibilità di sedersi l’uno accanto all’altro e raggiungere risultati di coesistenza e coesione culturale e spirituale», ha detto Muti a Zaatari. Tra i musicisti siriani c’è un ragazo che ha appreso l’arte del violino via Youtube, «Non aspiro a fare il musicista, però mi piace suonare». A cosa aspira? «Mi basta un visto per andarmene e costruire un futuro, è un’impresa difficile, però ci conto».
Anche la Giordania si augura di alleggerire i campi profughi disseminati sul proprio territorio, è il secondo Paese al mondo per presenza di rifugiati in rapporto alla popolazione ospitante. È sì il Paese di patrimoni dell’umanità, la culla di Jerash, di Petra, di kenyon mozzafiato e di regine icona di eleganza, Rania batte tutte le omologhe, di nozze principesche appena festeggiate. La Giordania è vitale nello scacchiere mediorientale, la dinastia che la regge hashemita – assicura da sempre il dialogo sia con il mondo occidentale sia con quello arabo. Un stato cuscinetto, baluardo moderato all’instabilità mediorientale. «Siamo qui perché vogliamo onorare questo grande Paese, questo grande popolo per quello che sta facendo a livello umanitario per aiutare le persone che soffrono e che fuggono i conflitti. Spero che quello che state facendo, l’esempio che state dando, sarà sentito da molti altri Paesi nel mondo. Credo che la musica sia il migliore ponte fra Paesi per scegliere una strada che non sia quella della violenza che invece è percorsa in molte parti del mondo. La musica non usa parole, la musica è un viaggio puramente spirituale, come Beethoven disse “da cuore a cuore”», ha detto Muti aprendo il concerto a Jerash alla presenza dei ministri del Turismo e della Cultura. Il Regno sta però attraversando una delle sue peggiori crisi economico-sociali. Le gigantografie della coppia reale e principesca, serene e felici, presenti ovunque basteranno?

Piera Anna Franini, il Giornale, 11 luglio 2023

Muti in Giordania anche per i profughi

 – Pierachille Dolfini | 11 luglio 2023

Ha il suo volto. Ha i suoi occhi. Ha le sue mani la Giordania. Il volto, le mani, gli occhi di questo metro e dieci di ragazzino. Chi lo sa il suo nome. “Una moneta italiana” ti dice scandendo bene le parole. Glielo deve aver insegnato il padre. Che oltre la Porta sud del sito archeologico di Jerash, «questa bella porta» dice mentre al tramonto ti indica il passaggio che porta verso il colonnato e poi al Tempio di Zeus, ha un banchetto: calamite, ventagli, cappelli di paglia per ripararsi dal sole, kefiah che ti mette in testa senza fare troppi complimenti – «questo regalo» insiste mentre i vicini di bancarella fanno partire L’italiano di Toto Cotugno a tutto volume. «Una moneta italiana» ti dice invece, inseguendoti sulle strade di polvere, quel ragazzino di sette o otto anni al massimo, allungandoti un pacchetto di cartoline avvolte nella plastica, foto di Jerash un po’ sbiadite dal sole. Lo fa con quelle mani – e guardandoti con quegli occhi un po’ sfuggenti – che sono il presente e il futuro della Giordania. Che sa di speranza.
«Un paese e un popolo straordinari che siamo venuti ad onorare perché offrono rifugio e accoglienza a chi scappa dalla guerra» dice Riccardo Muti davanti al muro di pubblico in piedi sui gradoni del teatro romano di Jerash. Nord della Giordania, nazione dove il 30% della popolazione è costituito da rifugiati. Siriani, prevalentemente. A Jerash ci sono anche quindici di loro che abitano nel campo profughi dell’Acnur-Unhcr di Zaatari, a una manciata di chilometri dalla Siria, sono arrivati grazie a un permesso speciale del ministro dell’Interno. Qui, nel sito archeologico che parla anche un po’ italiano (nostri sono gli scavi al Tempio di Artemide), il maestro ha voluto portare l’edizione 2023 de “Le vie dell’amicizia” di Ravenna festival, invitato dal governo di questo paese ancora giovane – Amman, la capitale, è una città cantiere, sterminata, dove si continuano a costruire case. Il ponte di fratellanza in musica da Ravenna (venerdì il concerto nella città romagnola) è approdato nell’antica città romana distrutta dal terremoto, che chiamano la Pompei d’Oriente. E a Pompei “Le vie dell’amicizia” approdano stasera. Distrutta, Jerash, ma ancora bellissima nei suoi frammenti di templi, piazze, cardi e decumani – e anche qui, carabinieri italiani lavorano ad un progetto europeo per insegnare ai giordani la conservazione del patrimonio culturale.
«Perché anche qui affondano le nostre radici. Che sono radici spirituali e culturali» non si stanca di ricordare Muti. Il Giordano scorre a pochi chilometri rendendo fertile il deserto di pietra della Giordania. La Terra Santa e Gerusalemme te le sei lasciate alle spalle atterrando ad Amman su un volo con una carovana di musicisti (duecento tra ragazzi dell’Orchestra giovanile Luigi Cherubini e voci del coro Cremona Antiqua di Antonio Greco) partita da Ravenna e approdata domenica (ancora una volta, dici guardando l’elenco delle ventisette tappe de “Le vie dell’amicizia”) in Medio Oriente. Israele e Palestina perennemente inquieti, da una parte. Dall’altra la Siria, con le ferite della guerra e del terremoto che (ormai) in troppi hanno dimenticato. Ferite che, dal 1997, quando fece rotta verso la Sarajevo in ginocchio per il conflitto dei Balcani, Muti prova a medicare attraverso la musica.
Nel Teatro romano di Jerash, Gluck con il secondo atto di Orfeo ed Euridice – e il racconto di Orfeo (che è il controtenore Filippo Mineccia) che riporta in vita la sposa non può non farti pensare alla forza dell’amore che, forse, potrebbe riportare la pace dove oggi si combatte. Poi il Casta diva della Norma di Bellini affidato a Monica Conesa, «un inno del Mediterraneo» per Muti, e Il canto del destino di Brahms. Pagine che si impastano a melodie tradizionali di Giordania e Siria – le cantano Razek-Francois Bitar, Mirna Kassis, Zain Awad e Ady Naber, le suonano Saleh Katbeh e Elias Aboud. Il tramonto infuoca la sera di Jerash. Muti attacca l’introduzione dell’aria più celebre della Norma. E parte il canto del muezzin. Il maestro posa la bacchetta. Aspetta. Come già successo a El Djem, in Tunisia, nel 2005, in un altro Viaggio dell’amicizia. «Perché è una preghiera». Poi attacca un’altra preghiera. «Spargi in terra quella pace che regnar tu fai nel ciel» canta la sacerdotessa. «Per dire ancora una volta – spiega Muti – che la musica può insegnare un metodo per provare a risolvere i problemi del mondo. Lo vediamo, non senza commozione, facendo musica con ragazzi italiani, giordani e siriani che suonano insieme e si capiscono benissimo. La dimostrazione che c’è una parte positiva del mondo che ci dà speranza mentre un’altra parte del mondo continua a pensare a fare la guerra».
La guerra che dalla Siria ha portato nel campo profughi di Zaatari 80mila persone. Vivono oltre il filo spinato e i carri armati nella cittadella costruita dal 2012, subito dopo lo scoppio della guerra, dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati: dodici distretti distribuiti su 5,3 km quadrati, ospedali (uno è affidato all’Italia in collaborazione con la Giordania), scuole, centri commerciali e la via dello shopping. Un sistema bancario interno, tante attività gestite dai rifugiati per promuovere un’economia di sostentamento del campo. Una città che produce l’energia necessaria grazie a una grande distesa di pannelli solari. «La metà della popolazione qui ha meno di 18 anni. Ogni settimana nascono tra i sessanta e i settanta bambini. Ventitremila quelli nati dal 2012» dice Adam Nord, coordinatore del campo.
Saluta Riccardo Muti arrivato nel campo profughi attraversando la Giordania, un deserto di pietra soffocato dalla plastica – brandelli se ne vedono ovunque, attaccati alle cancellate, avvolti intorno agli alberi, fatti viaggiare dal vento. Prima di suonare a Jerash Muti ha voluto essere a Zaatari, per un concerto con musiche siriane organizzato mettendo delle sedie sull’erba sintetica del campo di calcio. Musiche intrise di malinconia che il maestro segue attento, tra un selfie e una stretta di mano con i profughi che gli si fanno attorno. A loro Muti e Ravenna festival regalano strumenti musicali: oud, la tipica chitarra mediorientale, migwiz, una specie di flauto, e violini.
A Zaatari la sera si fa musica insieme. Poca televisione, ma tanti social. «Ma non so se facciamo il loro bene mostrandogli questo volto dell’Occidente» sorride Muti. Per lui e per Ravenna festival il campo è rimasto aperto in via eccezionale fino a sera per il concerto dei musicisti del campo, tanti che suonano per passione, qualcuno lo fa di mestiere insegnando a scuola o dando lezioni. Ahmad appena ha ricevuto il suo migwiz lo estrae dalla custodia e si mette a suonarlo. E parte una danza con gli ospiti del campo che si danno la mano e girano in cerchio, coinvolgendo gli italiani in questo ritmo mediorientale.
Uomini da una parte, donne dall’altra perché siamo in un paese dove oltre il 90% degli 11 milioni di abitanti è musulmano, i cristiani sono l’1,4%. «Però con le ragazze ci scriviamo tramite social» racconta Akram, vent’anni, che studia ingegneria elettronica. Per molti il futuro è incerto. Vivono da undici anni in un limbo. Anche se escono per studiare e lavorare. Il governo giordano concede permessi di lavoro a seconda delle esigenze del mercato. Permessi temporanei che durano al massimo sei mesi. Attualmente ce ne sono 4mila.
Tagriz sogna la Germania. Ha 42 anni e un figlio, Baatol, di 16 che segue corsi di fotografia. Firas ha 23 anni, è di Homs. Muti ha regalato un oud al padre, Mahmood, 62 anni “il maestro” del campo. Che tutti conoscono e stimano. «La vita è dura. Si lavora per piccoli periodi» racconta Firas. Sorride il suo amico Mohammed, 24 anni di Dar’a. Lui studia musica. Suona (benissimo) il violino. Mentre suona lo riprende con il cellulare Quais, arrivato anche lui da Dar’a nel 2015. Si muove su una carrozzina per un problema genetico. «Mi piace la musica, specialmente quella inglese. Il mio sogno? Viaggiare. E lavorare come programmatore di computer». Sogni. Che servono a coltivare una speranza. Quella della Giordania. Quella della Siria. E, forse, del mondo. Una speranza cha oggi ha il volto, gli occhi, le mani piagate dalla malattia di Quais.

Pierachille Dolfini, Avvenire, 11 luglio 2023

La musica di Muti e l’umanità ferita
«Un dialogo di mente e di cuori»

– Stefano Marchetti | 7 luglio 2023

Qualche sera fa un robot umanoide ha diretto l’orchestra in Corea del Sud. C’è chi vi ha visto una svolta epocale, altri l’hanno considerata soltanto una trovata bizzarra. Un robot può eseguire un programma, ma la musica richiede un’anima, un dialogo di menti e di cuori. «Gli sviluppi tecnologici fanno parte della storia dell’umanità. Ma l’importante è non uccidere la spiritualità, altrimenti è finito l’uomo», commenta Riccardo Muti. Di profonda umanità e spiritualità è intessuto il nuovo viaggio di Ravenna Festival lungo le “Vie dell’Amicizia” che il maestro Muti si appresta a fare con la sua Orchestra Giovanile Cherubini. Tre concerti, stasera al Pala De André di Ravenna (con il sostegno della Cassa e della Fondazione Cassa di risparmio di Ravenna), poi domenica al teatro romano di Jerash in Giordania e martedì 11 nell’anfiteatro della nostra Pompei. Città che erano invisibili, sepolte dai secoli, e sono riemerse per raccontarci la loro storia. Un ponte di solidarietà costruito sulla musica condurrà gli interpreti, i coristi e artisti giordani e siriani anche al campo rifugiati di Za’atari, al confine con la Siria, che ospita quasi 80mila persone fuggite dalla guerra.

Maestro, è il 27° viaggio dell`amicizia. Non vi siete mai fermati…
«Abbiamo iniziato nel 1997 a Sarajevo e abbiamo sempre toccato luoghi del mondo spesso problematici, sia socialmente che per situazioni umanitarie, portando l’etica del fare musica insieme. Quest’anno abbiamo accolto l’invito a recarci in Giordania, una terra generosa che ha accolto persone in fuga da Paesi feriti».

Come ha pensato il programma?
«Jerash e Pompei sono solo apparentemente lontane, ma legate da una storia comune che si riflette nei due anfiteatri romani. Mi è piaciuto così cercare assonanze di un mondo antico in cui si possa leggere la nostra comune cultura. Si ascolterà l’Orfeo ed Euridice di Gluck così come Casta diva da Norma di Bellini, una pagina sublime rivolta a una luna quasi leopardiana. Un segno di speranza che io vedo anche nel finale del Canto del destino di Brahms che eseguimmo anche a Sarajevo: una meditazione sulla vita, sulla morte, sull’uomo. Fra questi brani, si incastonano musiche che affondano le radici nel Medio Oriente».

Per il concerto di stasera a Ravenna, lei ha deciso di devolvere il suo cachet al Museo Zauli di Faenza devastato dall’alluvione. Come ha vissuto quei giorni terribili?
«Drammaticamente, con enorme preoccupazione. Mi trovavo negli Stati Uniti quando è avvenuto il disastro. Essere distanti, sapendo che la famiglia era a Ravenna mentre tutto veniva travolto dall’acqua senza controllo, è stato quasi traumatico. Sentivo di non poter fare niente, se non raccogliere notizie. Anche la mia casa in campagna ha subito danni».

La Romagna ha saputo reagire…
«In maniera meravigliosa. I romagnoli hanno dimostrato di essere un grande popolo. So che qualcuno li chiama i meridionali del nord: di certo, con il loro carattere sanguigno e la loro forza, hanno dato prova di grande maturità, sopportazione e ripresa. In generale, nei momenti difficili, il popolo italiano sa davvero mostrare la parte migliore di sé».

Negli States lei ha suggellato i suoi 13 anni di direzione musicale della Chicago Symphony Orchestra. È stato nominato direttore emerito a vita. Con quale emozione?
«Con immensa gratitudine: mai nessun altro direttore è stato insignito dello stesso titolo. Quelli con la CSO sono stati anni meravigliosi. Con l’orchestra comunque continuerò a lavorare: nei prossimi mesi una tournée europea ci vedrà anche alla Scala».

Poi ci sono i progetti con i Wiener: quali?
«Con loro abbiamo già programmi fino al 2028. Mi riempie di gioia e di orgoglio il fatto che mi abbiano invitato a dirigerli a Vienna, il 7 maggio 2024, nel 200° anniversario della Nona Sinfonia di Beethoven. Pensi che quando i Wiener vennero fondati nel 1842 ne facevano parte musicisti che avevano suonato con Beethoven, quindi la tradizione va direttamente alla fonte. E non era scontato che chiamassero un direttore italiano per il bicentenario».

Anche per i suoi Cherubini c’è in vista un compleanno…
«Nel 2024 saranno vent’anni di questa orchestra che ho fondato e da cui sono passati quasi mille musicisti: oggi molti hanno acquisito posizioni di spicco in Italia e all’estero».

Sere fa a Ravenna lei ha diretto anche la Banda dell’Arma dei Carabinieri nella Sinfonia del Guglielmo Tell di Rossini. Un altro gioiello?
«Ho aderito con piacere all’invito del generale. La Sinfonia è un pezzo infernale per la banda, molto impegnativo: l’hanno eseguita con eccellente virtuosismo. Da sempre io sono legato alle bande che sono state sempre capaci di diffondere la musica a livello popolare. Mio nonno cantava la Norma o la Forza del destino perché alle feste patronali ascoltava la banda».

Maestro, l’estate è tempo di riposo. Ma lei non riposa mai?
«Scherzando, dico a volte che non mi stanco mai – ride – perché sono nato stanco».

Stefano Marchetti, QN, 7 luglio 2023

 

Guarda le foto:

Ravenna, 7 luglio

Jerash, 9 luglio

Pompei, 11 luglio

© Zani Casadio

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