Muti allo specchio i ricordi del Maestro

– di Luciano Fontana | 28 luglio 2021

Ottant’anni di passione e rigore al servizio della musica «Il podio è come un’isola di solitudine esposta ai venti»

«Ormai sono un ottuagenario». Lo ripete spesso Riccardo Muti nelle conversazioni di questi ultimi tempi. Come a marcare uno stato di saggezza riflessiva, di un uomo con uno sguardo più completo e distaccato, di una persona che può ripensare con serenità alla sua vita e al suo straordinario percorso artistico. Ma sono parole che non devono ingannare. La frase è una parentesi dentro idee, progetti musicali, riflessioni su come far crescere tra i giovani la passione per la musica e formare i talenti del futuro. Ci scherza anche su ricordando che gli scienziati hanno previsto che l’uomo potrà arrivare ai 120 anni di vita: «Mi dispiace, sono arrivato troppo tardi». Questa autobiografia che il «Corriere della Sera» ripubblica per i suoi 80 anni cade dopo un’emergenza tremenda per l’Italia e il mondo intero. Ci prepariamo a ripartire con la speranza di aver fatto finalmente i passi giusti, di poter riconquistare le nostre vite, le nostre attività, il rapporto con gli altri. È stata una lezione tremenda per tutti noi, ci ha fatto scoprire quanto siamo fragili e quanto siano importanti impegno, competenza, ricerca, attenzione alla difesa dell’ambiente in cui viviamo.
«Il podio è come un’isola di solitudine», ha raccontato il Maestro, «dove sono esposto ai venti e alle bufere dell’orchestra che guarda davanti a me, come a quelli del pubblico che sento fremere alle mie spalle». I venti del pubblico sono l’assenza più profonda che Muti ha sofferto in questi lunghi diciotto mesi che passano dal concerto alla Scala nel gennaio del 2020 ai giorni del suo compleanno. I mancati viaggi in America per il suo lavoro di direttore musicale della Chicago Symphony Orchestra, l’anno e mezzo passato muovendosi poco o nulla dalla sua casa di Ravenna, rinunciando a quella che considera la missione più importante: «Facciamo musica non per noi, ma per gli altri, e quando la facciamo mandiamo un messaggio di cultura che credo sarà importantissimo in questa ripartenza». Giornate di attenzione a quanto di drammatico stava accadendo nel mondo, di studio intenso, di sentimenti contrastanti e di recupero di un rapporto forte con l’Italia che gli impegni americani avevano necessariamente affievolito. Il primo appuntamento a Ravenna, per dare a tutti un segnale importante di ripresa, la direzione dell’orchestra Cherubini, quella dei suoi amati giovani concertisti, le collaborazioni con il Regio di Torino, il Petruzzelli di Bari, il Massimo di Palermo. Un ritorno nel nostro Paese avvolto da quel senso di smarrimento e di straordinarietà avvertito nel concerto di Capodanno di inizio 2021 a Vienna: «Una sala vuota e 5o milioni di persone collegate in tv o in streaming» ricorda. «La musica di Strauss è concepita per una risposta fragorosa e immediata da parte del pubblico. Invece ho vissuto una vera contraddizione: dirigere una musica di grande espansione e brillantezza che cadeva nel vuoto, in un silenzio spettrale. Abbiamo avuto certamente la possibilità di raccoglierci e farci ascoltare in tutto il mondo. Ma spero che non si ripeta mai più».
Riccardo Muti, la sua autobiografia ne è una dimostrazione, è capace di affrontare i temi più difficili di un autore e di un’opera mescolando tutto con aneddoti, ricordi, battute taglienti e divertenti. È la cifra del suo racconto, un’alternanza che applica a questi mesi di «prigione dorata» causa pandemia. Mentre parla lo immaginiamo nel suo studio ravennate che «naufraga» (parola sua) nella Messa solenne di Beethoven da preparare per l’esecuzione d’agosto a Salisburgo, una partitura che dal 1970 «prendo e lascio. Per cinquant’anni non avevo avuto la forza, il coraggio o l’ardimento, ora mi sento maturo per affrontare questo Everest». O mentre guarda in tv la sfilata dei virologi spesso in contraddizione tra di loro e si lascia andare a considerazioni sull’uso e abuso delle parole «scienziato» e «maestro». «Una volta la parola scienziato veniva utilizzata solo per alcuni grandissimi come Einstein e quella di maestro per musicisti come Verdi, Puccini e Toscanini. Ora si abbonda senza limiti, è un po’ come quei parcheggiatoci napoletani che chiamano tutti dottò…»
Muti in questo libro racconta se stesso, la sua formazione, i successi, l’amore smisurato per la musica, ma racconta anche l’Italia che gli piace e che rimpiange quando ne vede dispersi i tratti in questo nostro presente. Un’amarezza che lo ha portato, in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul «Corriere della Sera», ad affermare perfino di essere stanco della vita. «Io credo nel mio Paese, ma non abbiamo fatto tutto il necessario per far capire ai giovani il privilegio di essere italiani. Mi arrabbio sempre quando dico di essere di Napoli e vedo spuntare all’estero un immancabile sorrisetto», afferma senza timore di apparire retorico. Crede nella voglia di riprendersi, una ripartenza vera che non si limiti a tappare i buchi delle cose che non vanno. «D’altra parte in una sinfonia dopo un diminuendo molto spesso c’è un grande crescendo». Questo crescendo, nell’idea del Maestro, può dispiegarsi a livello sociale e culturale se si recupera lo spirito del Dopoguerra. I ricordi tornano agli anni del liceo a Molfetta, con i professori coetanei di Gaetano Salvemini (anche lui era stato studente nella stessa scuola) che incontravano gli allievi nella villa comunale per discutere di arte e filosofia. Un mondo semplice e severo, tutto indirizzato a superare i disastri della guerra. «Si respirava un senso di conquista, di positività, di riprendersi un posto nel mondo».
È il mondo di Nino Rota che convince i suoi genitori a farlo diventare musicista, del direttore del Conservatorio di Napoli, Jacopo Napoli, che gli chiede di iscriversi al corso di direzione d’orchestra mentre il giovane Riccardo è fermo impalato su una mattonella che ricorderà per tutta la vita, di Antonino Votto a Milano, assistente di Toscanini, e suo punto di riferimento assoluto negli anni degli studi milanesi. Gli sembra che quei tratti di impegno, serietà, dedizione assoluta allo studio e rispetto per chi deve guidarti siano essenziali anche in questa nostra uscita dall’emergenza. «Quegli anni pugliesi», racconta, «mi mancano in una maniera drammatica, ora che ho 8o anni mi ritrovo a pensarci sempre più spesso. E quando posso torno in Puglia dove ho comprato un pezzetto di terra proprio sotto Castel del Monte, luogo di una delle mie prime gite da ragazzo con i miei genitori. Sono innamorato di questo maniero e di Federico II di Svevia. A maggio il campo si copre di orchidee selvatiche, mi fermo lì e mi perdo nei pensieri». Ricordi di uno straordinario percorso che lo ha portato a diventare direttore musicale al Maggio fiorentino, a Londra, a Filadelfia, alla Scala, a Chicago. «All’onore e alla fortuna enorme» di dirigere per cinquant’anni di seguito la Filarmonica di Vienna e il Festival di Salisburgo, a fondare nel 2004 l’orchestra intitolata a Cherubini, composta da giovani talenti che via via si sono affermati in Italia e nel mondo. «Ora quest’ultima è la cosa a cui tengo di più», ripete, «è quella a cui voglio dedicarmi negli anni futuri. Servono energie nuove in un’Italia in cui la cultura musicale è ancora estremamente arretrata. L’istruzione è la chiave, insegnare come comportarsi eticamente in un’orchestra». L’arte dei suoni insegna a convivere. E il punto fondamentale, in un’orchestra e nella società. «Una linea melodica non deve ostacolare le altre, ma deve concorrere con le altre alla sinfonia. Linee diverse devono aiutarsi per il bene finale». Ci sono tanti talenti che possono sbocciare, il consiglio di Muti è non correre troppo, studiare molto (composizione, pianoforte e almeno uno strumento ad arco) e non incorrere nella tentazione di vedere nella direzione d’orchestra un rifugio di comodo, «zompando come Pulcinella e mirando al facile successo. Non esageriamo nel farci vedere a saltare sul podio, meno ci si muove più la musica arriva al pubblico».
Una lezione di rigore che ha applicato per tutta la vita combattendo le manipolazioni, gli effetti facili, l’esibizionismo circense. Soprattutto nel lavoro sull’autore più amato e, secondo il suo giudizio, più bistrattato. «Giuseppe Verdi è stato sottoposto a tradimenti» s’infervora «in virtù di un esibizionismo che non ha nulla a che vedere con la sua grandezza. Noi italiani lo abbiamo spesso interpretato in maniera distorta, abbiamo abbandonato la dignità dell’autore, cosa che non è mai avvenuta per Mozart. Io non voglio tarpare le ali, ma voglio rendere giustizia alla sua grandezza e rispettare ciò che Verdi voleva dirci con la sua musica». Una lunga ed estenuante azione, nelle intenzioni del Maestro, contro la sciatteria e il travisamento delle sue partiture in nome dell’effetto di un acuto e del presunto sentimento popolare. «L’ho fatto nelle direzioni alla Scala dove Verdi, con la sua trilogia, Traviata-Trovatore-Rigoletto, mancava da vent’anni, continuerò a farlo sempre. E speriamo che se un giorno incontrassi Verdi nell’aldilà non mi dica che non ho capito niente. Sarebbe per me una seconda morte»; Sono sicuro che non sarà così. E che anche Verdi apprezzerà una citazione di Mozart che il Maestro Muti ama ricordare spesso: «La musica più profonda è quella che si nasconde tra le note. Tra una nota e l’altra, anche se strettamente legate, c’è l’infinito. Compito del musicista e del direttore d’orchestra è proprio di riuscire a dar voce e a interpretare la musica che sta tra una nota e l’altra. Tirare fuori ciò che non è scritto eseguendo rigorosamente ciò che è scritto».

Luciano Fontana, Corriere della Sera, 28 luglio 2021

 

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