“In giro vedo un senso di vuoto e ignoranza, il virus ha ammazzato la cultura”
Il Maestro è impegnato a Ravenna con la scuola per giovani direttori d’orchestra ma immagina un futuro poco roseo per il Paese “Però non lo lascerò mai”
– di Anna Bandettini | 25 luglio 2020
Beata gioventù. Fuori il clima è da mare, ma decine di ragazzi e ragazze, allievi e uditori, sono qui al Teatro Alighieri di Ravenna in una assoluta, incredibile concentrazione per le lezioni di musica di uno dei cinque più grandi direttori d’orchestra al mondo. Otto ore ogni giorno: ascoltano consigli («la direzione d’orchestra è tutta qui, nel polso, non c’è bisogno di sbracciarsi»), seguono le prove, gli aneddoti, e, una volta usciti dal teatro, aspettano il Maestro per sciogliere in un saluto il segno della gratitudine.
Questo è lo spirito dell’Italian Opera Academy, la scuola per direttori d’orchestra e maestri collaboratori under 35 che Riccardo Muti ha fondato a Ravenna, e dopo sei anni vanta una gemella in Corea e Giappone. «Abbiamo avuto 580 domande di ammissione da tutto il mondo quest’anno», spiega Muti, «ma a causa del Covid i selezionati, una cinquantina, sono necessariamente italiani o residenti in Italia, e tra questi ho scelto i quattro direttori-allievi e i cinque maestri collaboratori che lavorano direttamente con me in questi giorni». Occasione preziosa, perché, dopo Verdi e Mozart delle precedenti edizioni, Muti ha scelto di “rendere giustizia” al melodramma italiano, «maltrattato da una cattiva consuetudine», Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo. A conclusione, saranno presentate in forma di concerto, il 29 dirette dal Maestro e il 31 dai 4 direttori-allievi, Giovanni Conti, Samuele Galeano, Charlotte Tais Renzetti, sempre sul podio della Cherubini, l’ormai celebre complesso di musicisti under 30, fondato nel 2004, altra opera tenace di Muti per i giovani, che sarà di nuovo con il Maestro il 30 agosto per la chiusura del Festival di Spoleto in piazza Duomo. «Ragazzi voi siete la nuova generazione, datemi un conforto», incalza dal proscenio, in una pausa dell’Academy.
Maestro Muti, tutti questi giovani artisti intorno a lei… è un bel segno di fiducia nel futuro.
«Sono soddisfatto, questi ragazzi sono preparati, molti anche laureati… Ma se mi guardo intorno, in generale, mi viene una cappa di malinconia».
E perché?
«Mi preoccupa quello che vedo in giro: un senso di vuoto, ignoranza, si è persa la voglia di sapere, la voglia di bellezza. Il virus ha ammazzato la cultura e la televisione invece di approfittarne ha continuato nell’intrattenimento, che ci vuole, ma non solo quello. Ho sempre odiato il laudator temporis acti, chi loda il tempo passato. Quando mio nonno diceva “ai miei tempi…”, mi incavolavo, ma adesso mi trovo a rimpiangere gli anni ’50, gli anni della mia giovinezza, la voglia di fare, i sogni puliti, positivi e non è che sta parlando San Francesco. Oggi per la cultura in generale, in Italia, non vedo futuro».
Non è troppo pessimista?
«Non ci sono idee nuove e le idee nuove non le hanno i vecchi. In Italia si pensa che si possa risorgere ricorrendo alle star».
Anche lei è una star.
«Proprio per questo so cosa è necessario per avere la qualità che mantiene vivo il bisogno di cultura di un paese. Non serve il divo che passa e va, ma la continua disciplina del lavoro quotidiano, di un’orchestra, di un coro, un corpo di ballo. Ci vuole l’enorme potenziale dei giovani».
Che riscontro ne ha lei con la Cherubini e con l’Academy?
«Alla Cherubini, dove per statuto c’è un ricambio continuo, sono passati 800 musicisti. Molti hanno trovato posto nelle orchestre principali. Altri insegnano. Ma c’è anche chi ha appeso lo strumento al chiodo, perché in Italia dove sono le orchestre? Dove vanno a finire i tanti ragazzi che studiano musica?».
La sua risposta?
«L’ho detto al ministro Franceschini: apri i teatri piccoli e dalli ai giovani. Basterebbe un piccolo sponsor locale per sostenerli. Prendiamo le bande, per esempio, depositarie di una tradizione strumentale da preservare. Col virus, senza più feste patronali, sono senza lavoro. Dovremmo essere custodi responsabili della nostra cultura, non gettarla a mare».
È per questo che ha scelto di riabilitare “l’italianità musicale” lavorando su Pagliacci e Cavalleria rusticana?
«Sono le opere più massacrate dai cantanti che cercano urli e effettacci per fare presa sul pubblico. E dire che le grandi esecuzioni, Mugnone, Karajan, Bernstein, Toscanini… ci sono state. Vorrei far capire a questi ragazzi che Mascagni e Leoncavallo sono musicisti veri, sono l’espressione della musica italiana ad alti livelli, legata al grande verismo di Verga, Capuana. Ma sono rovinate da chi non le conosce. Ricordo quando a 30 anni, appena arrivato al Maggio di Firenze, con Roman Vlad decidemmo di fare questi due titoli… lo scandalo degli intellettuali… Però vincemmo, perché il pubblico capì che non si può tradire il valore del nostro patrimonio musicale».
È una sua battaglia culturale. Come quella sulle regie troppo modernizzanti. Ha sentito le polemiche recenti sul Rigoletto al Circo Massimo?
«Non l’ho visto. Io credo che un regista debba avere delle idee ma che mantengano un rapporto con la musica. Verdi, per esempio, ha già una regia nelle note, non puoi contravvenire all’indicazione musicale dove già mi dice, prima che sopraggiunga in scena, che Germont nella Traviata è un uomo ordinario, cattivo. Se sei un bravo regista trovi un’idea che esalti il compositore, non che sia solo un effetto. Robert Carsen nei Dialoghi delle Carmelitane del 2004 non mise in scena quasi niente e fu uno spettacolo potentissimo, o l’Orfeo di Gluck di Ronconi nel ’76 a Firenze nell’ouverture quando appare Euridice vestita di banco, ogni sera avevo un brivido dietro la schiena. Io sono contro i cattivi cliché che rovinano il nostro melodramma e l’opera in genere. Ma mica posso fare come Leopardi, io solo combatterò… nel canto “All’Italia”. Quanti anni posso combattere ancora?».
Intanto non fa vacanze. Prima di Spoleto, dal 14 agosto è a Salisburgo per la Nona di Beethoven coi Wiener. A settembre a Chicago con la sua orchestra…
«Pensi che coi Wiener sono 50 anni di direzione senza saltare un anno. Un caso unico, credo. Posso dire di aver visto tre generazioni di Wiener».
Ma allora perché si sente ancora così legato all’Italia? Lei che potrebbe lavorare dove vuole…
«Perché quando esco dalla mia sala di concerto a Chicago, anche nello notti di inverno a 30 gradi sotto zero e vedo sulla facciata del museo d’arte di fronte scolpiti i nomi di Michelangelo, Raffaello, mi sento bene, mi sento orgoglioso di essere italiano. Ecco perché non lascerò mai questo paese».
Anna Bandettini, Robinson (la Repubblica), 25 luglio 2020
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