Trionfo di Muti alla Scala: “Sono tornato a casa mia”
– di Flaminia Bussotti | 23 gennaio 2020
IL CONCERTO
Dopo Napoli e Firenze, tocca a Milano chiudere il cerchio di questo viaggio della memoria che Riccardo Muti ha compiuto, con tre tappe in Italia, sul podio della sua Chicago Symphony Orchestra in Europa, l’ammiraglia fra le orchestre americane di cui è a capo dal 2010. Le tre città ricostruiscono l’itinerario artistico e sentimentale del maestro a Napoli è nato, ha studiato e si è formato, a Firenze ha preso il via, giovanissimo, la sua ascesa professionale – ma è a Milano, alla Scala, dove ha trascorso il capitolo più lungo della sua carriera, e dove ha regalato al pubblico in 20 anni un carnet fulminante operistico e sinfonico.
APPLAUSI
Ed è alla Scala che il pubblico si è lasciato prendere dal trasporto, riservandogli un’accoglienza da figliol prodigo. Scrosci di applausi e standing ovations, urla di bravo e ben tornato maestro. «Come tornare a casa – ha detto dopo il concerto – Tornare sul palco lasciato da tanti anni è stato come continuare un cammino interrotto perché il mio amore per questo palco e questa città non è mai terminato». Il programma scaligero era lo stesso eseguito due sere prima a Firenze l’Ouverture dall’opera di Richard Wagner L’Olandese Volante, la Sinfonia Mathis il pittore di Paul Hindemith e nella seconda parte dopo l’intervallo la Sinfonia n. 3 di Serghei Prokofiev, un colosso sinfonico dove l’orchestra ha potuto dispiegare tutta la maestosità degli ottoni e degli archi.
Flaminia Bussotti, Il Messaggero, 23 gennaio 2020
Il grande (e commosso) ritorno di Muti «Sono stato abbracciato da tutta la Scala»
– di Piera Anna Franini | 24 gennaio 2020
Quando Riccardo Muti si rivolge al pubblico della Scala per annunciare il bis, la voce tradisce l’emozione. Quello di mercoledì scorso non è il Muti visto a Firenze o a Napoli, per citare le precedenti tappe del tour chiuso ieri a Lugano. È commosso. Ha appena diretto la Chicago Symphony, da dieci anni la sua orchestra e con la quale è puro idillio. Sono i vent’anni al timone della Scala a provocare l’emozione che la voce, vero specchio dell’anima, ci riconsegna. Anche i musicisti suonano con una partecipazione e un calore particolari: sentono il significato della tappa milanese. Nel parterre, il ministro della Cultura accolto dal sovrintendete Dominique Meyer che spera di avere di nuovo Muti alla Scala «perché è tempo di rappacificamento e di chiusura di vecchie ferite». Quindi il sindaco, il pianista Maurizio Pollini, l’architetto Mario Botta. Quanto all’imprenditoria, fra gli altri Miuccia Prada e Massimo Perotti della Sanlorenzo. Finito il concerto, un successo, Muti rimane in teatro per un’altra ora e mezza. Incontra i ragazzi di Un Coro in Città, progetto dell’Accademia scaligera e Tim. «Vi raccomando. Cantate ascoltando gli altri. L’armonia è quella che ci guida nella nostra so…?». E i bimbi: «…cietà!». Il direttore prosegue: «La musica è importante non per fare do re mi fa, ma perché cantare e suonare insieme, in armonia, è l’esempio che dovrebbe avere una società civile. Purtroppo molti ancora non l’hanno capito, e non solamente adesso ma da generazioni e generazioni: parlo delle persone che dovrebbero guidare il Paese. Per questo crediamo nel vostro lavoro, nell’amore per la musica. Ci vedremo più avanti, io sarò un po’ più corto e voi un po’ più grandi».
Nel foyer, coda per la firma dei dischi. Un respiro. E la confessione. «Sono stato abbracciato dal teatro. Accolto da musicisti, membri del coro, macchinisti, tecnici e portieri con un affetto e un calore come se fossi andato via ieri. Sembra una frase retorica, ma la realtà è che per me è stato un ritorno a casa. Questo affetto mi ha dato una grande gioia. Quando sono salito sul palco, era come se stessi continuando un cammino mai interrotto, come se non fossero trascorsi 20 anni. Del resto, nel mio cuore l’amore per questo teatro non si è mai interrotto. Non rinnego neanche un giorno. C’è una storia di 50 opere, dischi, concerti. Vent’anni di vita di un artista non si dimenticano. E il fatto che alla fine l’orchestra non si sia voluta alzare, cosa che non fa mai, è stato per dire al pubblico di Milano: “Questo è il nostro direttore. Voi lo amate, noi lo amiamo”».
Robert Chen, da 21 anni primo violino della Chicago Symphony, lo ammette: «Siamo tristi all’idea che il mandato di Muti si concluda nel 2022. Però, il Maestro ha un’età in cui può permettersi di dire: “Adesso basta”, liberandosi dal gioco delle responsabilità. Lascerà un’orchestra in ottima forma, senza rimpianti e frizioni». Già si è costituita una commissione per individuare il successore, «ma è difficile trovare un così grande musicista. A Chicago siamo grati a Muti: avrebbe potuto fare tante cose, e accettò di lavorare con noi. È stato un bel decennio, siamo molto legati a lui. Si presenta alle prove sempre super-preparato. Chiede tanto, affronta ogni situazione con estrema serietà, ma sa anche sciogliere la tensione».
Chi è Muti? «Una combinazione di intelletto, brillantezza, capacità di comando. E carisma: tanto carisma». Non lo dice l’appassionato di musica o il critico (spesso) ignaro di studi musicali. Lo dice Robert Chen, numero uno di un’orchestra nella top 5 al mondo.
Piera Anna Franini, Il Giornale, 24 gennaio 2020
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«Dalla Scala a Napoli Tour nell’Italia che amo»
– di Valerio Cappelli | 02 gennaio 2020
A dieci anni dalla nomina a direttore musicale, Riccardo Muti comincia dal 9 una tournée europea con la Chicago Symphony Orchestra (CSO): l’11 c’è una tappa a Vienna, dove poi dirigerà il Concerto di Capodanno del 2021. Il tour toccherà l’Italia: il 19 al San Carlo di Napoli, il 20 all’Opera di Firenze, il 22 alla Scala.
Maestro, come ha scelto le città italiane?
«Sono quelle per me fondamentali. La prima, dove sono nato e mi sono diplomato al piano; la seconda dove, nel ’68 al Maggio, tutto è partito, e per il ’22 si parla di un mio Simon Boccanegra. Milano è la città del lungo periodo scaligero di cui non rinnego neanche un giorno, ho vivo in me il ricordo di cose importanti che nessuno può cancellare».
Lei a Chicago è soltanto il decimo direttore musicale in 129 anni di vita della CSO.
«Ho ereditato una grandissima orchestra, forse la più carismatica e famosa d’America. Ha avuto un’essenza di direttori molto importanti, di stampo tedesco. Fu creata nel 1891 da Theodore Thomas».
E vero che si parlava prima il tedesco dell’inglese?
«I programmi della CSO che ho visto in archivio erano stampati in tedesco. Frederick Stock, successore di Thomas, era suo connazionale e diresse in prima assoluta la Terza Sinfonia di Casella, dopo averlo incontrato a Venezia. Molte prime esecuzioni in USA di lavori europei avvennero a Chicago. Ha avuto come direttori musicali non talenti a inizio carriera ma Kubelik, Solti, Barenboim e, in un periodo di transizione, Haitink e Boulez. Tutti giganti dell’interpretazione».
La sua nomina?
«Non volevo avere impegni istituzionali fissi, dopo Firenze, Londra, Philadelphia e la Scala. Avevo declinato due volte la guida della New York Philharmonic. Nel 2007 diressi in un tour la CSO dopo un buco di 34 anni. Fu un incontro straordinario sul piano artistico e umano. Ricevetti 6o lettere dei musicisti dell’Orchestra in cui esprimevano la loro gioia. Vi tornai presto per
un concerto e da lì accettai di diventarne direttore».
Il suo lavoro a Chicago?
«L’Orchestra è famosa per l’eccezionalità degli ottoni, e Solti la spinse verso la muscolarità e l’enfasi della potenza sonora. Barenboim sviluppò un equilibrio maggiore con archi e legni. Io, attraverso l’opera italiana che l’orchestra ama molto (abbiamo fatto Macbeth, Falstaff, Otello e tra un mese Cavalleria Rusticana), ho aggiunto un fraseggio e una lucentezza del suono che lì mancavano in passato».
Chicago ha fatto da apripista alle donne musiciste.
«La prima direttrice afro, Margareth Harris, debuttò nel ’71 a Chicago, nel ’41 la cornista Helen Kotas divenne prima parte, non era mai successo per una donna. Se al cinema nel folclore è identificata con i gangster, Chicago è il cuore dell’America, moderna, dinamica, dove sono nate le grandi architetture e università. Ed è di una pulizia estrema, se penso a Roma…».
Parlando dell’Italia, lei sta rinsaldando un rapporto con la sua Napoli?
«Parlo abbastanza bene il napoletano, ho frequentato il liceo Vittorio Emanuele nel cui ingresso c’è una lastra commemorativa con alcuni famosi alunni, ci sono anche io. Il portiere mi ha detto. Maestro, siete ogni giorno davanti ai miei occhi. A scuola ci hanno insegnato a parlare male dei Borboni, che nella cultura sono stati straordinari. Il San Carlo fu costruito in nove mesi. Aprendosi al nuovo non deve dimenticare le radici. A Napoli c’è tutto un centro culturale, fra teatro, Conservatorio dove ci sono migliaia di partiture dimenticate che aspettano di essere riscoperte, Biblioteca dei Girolamini: può essere connesso a favore di un grande centro d’arte. Il passato può diventare il centro propulsore per il futuro. È la città dove Mozart volle che fosse riconosciuto il suo genio. In una lettera al padre scrive: anche se non pagano molto, un’esecuzione a Napoli ne vale 100 in Germania».
Si parla di un suo Don Giovanni al San Carlo.
«Nel prossimo novembre vi dirigerò un concerto e nel ’21 il Don Giovanni con la regia di Chiara, mia figlia: che pur avendo la sua autonomia e libertà, non farà mai nulla di provocatorio, ed è cresciuta nel mondo di Strehler. È l’opera più enigmatica, misteriosa, indecifrabile in certi punti. Alla prova generale, nell’87 alla Scala, Strehler mi disse sconfortato: il Don Giovanni non l’abbiamo fatto. E non lo farà mai nessuno!».
E un’opera a Milano?
«Ho stima di Dominique Meyer, il nuovo sovrintendente che conosco da tanti anni, l’importante è che continui nella strada dell’internazionalità, gli faccio gli auguri di buon lavoro. Se tornerò per un’opera? Intanto ci torno con l’Orchestra di Chicago. Vi ho passato 20 anni della mia vita,
amo il pubblico milanese e non lo dico per piaggeria. Nella famigerata classifica degli applausi, l’opera che con me a Milano ha meritato il primato è l’Armida di Gluck, non Verdi. Torno alla Scala con grande felicità, portando l’orchestra del mio cuore nel teatro del mio cuore».
In USA è legato fino al 2022: esclude la possibilità del terzo rinnovo?
«Non si esclude mai niente. L’ho già prolungato, su loro richiesta. Nel ’22 torneremo per i Festival: Salisburgo, Lucerna, Londra. Mi piacerebbe anche essere libero, quantunque sia un rapporto straordinario. Ci sono altri modi in cui si può rimanere legati».
Valerio Cappelli, Il Corriere della Sera, 02 gennaio 2020
A World Class Orchestra in Cologne The Ultimate in Orchestral Art
– di Wolfram Goertz | 10 gennaio 2020
Traduzione di M. Falkenberg
“Ci sono orchestre molto brave. Orchestre eccellenti. Orchestre grandiose. Poi c’è la Chicago Symphony.”
There are very good orchestras. There are excellent orchestras. There are great orchestras. And then there is the Chicago Symphony Orchestra.
It is a rarity in the international classic jet set to find an orchestra of sometimes almost uncanny competence; an occasion for hysteria even among seasoned fans. The CSO could play the two-hour suite “The Gates of Tashkent” by the Uzbek composer Rustam Yanovski, and the concert would still be sold out.
This time it was at the Cologne Philharmonic—the CSO’s first concert there in 20 years—where the musicians from Lake Michigan played Sergei Prokofiev’s Symphony No. 3 in C minor, a tough, seemingly impenetrable work that you are not likely to put into your CD player at home. It was a revelation in concert because two things came together that gave the interpretation a huge boost.
On the one hand, there was the orchestra’s icy coldness—fueling enthusiasm in the audience—which did not miss a nuance of the timbres, rhythms, or the brittle melodic structure. The scherzo’s almost phosphorescent sound was overwhelming (it could undoubtedly function as a soundtrack for the shower scene in “Psycho”).
At the same time, you were able to experience the suggestiveness resulting from the calmness of the great Riccardo Muti conveyed at the stand. The performance was uninhibited, it was not as if it had the label “thriller” attached to it; instead, it was as if you were standing in a mountain stream, enjoying the music, which flooded imperceptibly until you suddenly stood up to your neck in the water. The cinematographic force of this approach was overpowering in a humane way.
Before the break—it was an all-Prokofiev evening—”Romeo and Juliet” was given, of which there is a brilliant, five-year-old recording with CSO and Muti. Again, Muti did not perform like an actor who wants to prove to the audience how fit and agile he is at 78, but rather, he demonstrated through sovereignty that the story about Romeo and Juliet also has a noble side and is not only dripping with heartache or vibrating with passion.
The CSO, once again spectacular with luxury and brilliance, moved through the story highlighting countless precious details that you would like to tell your grandchildren or godchildren about on the morning after the concert. Already the beginning with the cilia-fine chords from the strings or the moments of perfectly absorbed violence in “Tybalt’s Death” made it clear how high the bar had been set in Verona that evening. Applause by a profoundly shaken audience was followed by an encore of Scriabin’s “Rêverie.” Yes, we will dream of this concert for a long time.
Wolfram Goertz, RP Online, 10 gennaio 2020
For the Echo Chamber of the Soul
– di Malte Hemmerich | 11 gennaio 2020
Traduzione di M. Falkenberg
Riccardo Muti and the Chicago Symphony Orchestra start their tour in Cologne.
Seldom does a beginning captivate in such an unconditional way: at the moment at which Riccardo Muti lifts the baton in the Cologne Philharmonic Hall, smiles quietly but surely, and a dissonant and stratified chord hits the pit of the stomach in a manner both well prepared and unexpectedly, the audience is completely banned.
“Di rado un incipit affascina in maniera così categorica: Riccardo Muti alza la bacchetta alla Kölner Philharmonie, sorride calmo, ma sicuro, e un accordo di sovrapposizioni dissonanti, ben preparato e contemporaneamente inaspettato, colpisce la bocca dello stomaco. Il pubblico è completamente rapito.”
Sergei Prokofiev’s “Romeo and Juliet” is played here in a relatively free succession, highlights from the suites that the composer put together from his ballet music. And even if it is a bit lurid: it is not just the exuberant savoring of composed effects that makes this first half of the concert so attractive. Prokofiev’s ballet suites offer a lot of possibilities to play with contrasts, to switch to other tempos, colors, moods at lightning speed. The musical sections themselves are fleeting. If you have just grasped them with your ear, the individual movements are usually already over.
At the start of their European tour, which will take them to Paris next, Muti and his musicians don’t build small fires. Their warmth is more permanent than that of a smoldering piece of coal and wanders from the madrigal, into the minuet, and then into the mask dance. And yes, the musicians from Chicago play the suite in a mercilessly late romantic style. At the climax, the movement at which Shakespeare’s balcony scene can be imagined, “melting” can be experienced in all its complexity: almost dripping with sound, emotionally tear-inducing, but also structurally transparent. It is the themes of the lovers themselves that merge here – and this can be heard with captivating clarity.
Right from the start, every affect is placed right where it belongs, grows with the individual instruments, it is enjoyable to follow the changes in character of the woodwinds, like those of a fleeting but sympathetic acquaintance, because as such the clarinet had already been introduced in “Juliet as a Young Girl.”
With this European tour, Riccardo Muti is also celebrating his tenth anniversary as chief conductor of the orchestra, one of the, if not the top American orchestra. And like many famous predecessors, he shaped his musicians to new excellence, and even drilled them. Control is part of the concept for success.
Freewheeling is only granted for fractions of a second: A step forward on the desk is a recurring process.
Equally striking is the intense look at the soloist during solo passages or the restarting after general breaks. Then you can see an impulsive shake of the head when the cellos in the Andante of Prokofiev’s third symphony start too roughly, but mostly a generous smile, during the viola solo or when the orchestra’s infamous brass section can get started: fruits of years of collaboration can be harvested now with a loose flick of the wrist or with raising of an eyebrow, and it is a pleasure to listen.
Far from the intention of making a name for themselves with programs or even promoting them, the orchestra and Muti in Europe will perform Hindemith’s symphony “Mathias the Painter” or a pure Prokofiev program, like here in Cologne. His third symphony, premiered in 1929, deals with themes from the opera “The Fiery Angel” which did not make it to the stage during the composer’s lifetime but is currently often staged. Muti actually makes the symphony the main attraction of the evening after the tasty bait of ballet music. The first movement combines a cross section of the opera motifs into a classic sonata form. That might sound bulky if it were not for the violins, which can release melodic magic at almost every turn. But not only the charm, also the lucidity of making music is a blessing for the ears, even if, at the beginning of the first movement, the desired experience of being overwhelmed by this expressive conglomerate is somewhat lost. Towards the end of the beginning of the symphony, there is more and more experimentation with expansions and contractions of time, and boisterous moments of bringing sounds into clearer focus, which, however, appear self-evidently true after the fact.
In general, it seems that Muti needs to exude positive tension, especially during the quieter parts: when the effect of the music can be carried less naturally by the effect of the brass coming to the fore or the virtuoso strings. But even in the third movement—there is no closed melody, only two diffuse gestures—the piece moves us: through the sound. Horns, trumpets and trombones that appear again and again out of the string figures, crowning them like spray in the surf, cause goose bumps. Hardly anyone in the hall will not want to get further to the bottom of this work by Prokofiev afterwards, and the music will reverberate in each one of them for quite some time. What more can a concert evening do?
Malte Hemmerich, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 11 gennaio 2020
©Teatro alla Scala/Redazione Web
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Colonia, 9 gennaio:
Vienna, 11, 13 e 14 gennaio:
Firenze, 20 gennaio:
© Photo by Todd Rosenberg e Silvia Lelli
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