Il podio, un’isola di solitudine
– di Riccardo Muti | 19 maggio 2019
Quando rifletto sul mio ruolo di direttore d’orchestra, penso piuttosto al podio come a un’isola di solitudine, dove mi sento esposto ai venti e alle bufere dell’orchestra che guardo davanti a me, come a quelli del pubblico che sento fremere alle mie spalle. Ma chi è il direttore d’orchestra? Qual è il suo ruolo, quali i suoi compiti? Può sembrare una domanda banale, ma in molti ancora non hanno chiaro quale sia la sua funzione e per quale motivo l’orchestra abbia bisogno di questa figura. In molti poi erroneamente identificano l’atto del «dirigere» con il semplice «gesticolare».
Toscanini diceva – come mi raccontava il mio maestro Antonino Votto, che con lui aveva lavorato fin dagli anni Venti – che le braccia sono l’estensione della mente. Dimitri Mitropoulos precisava con senso pratico che dirigere richiede l’indipendenza delle due braccia: il braccio destro per controllare il ritmo e il braccio sinistro per l’espressione del «cuore».
Carlos Kleiber, a cui sono stato legato da amicizia profonda, mentre dirigeva più che segnare e controllare il ritmo con il braccio amava disegnare nell’aria le volute e le sinuosità della linea melodica, non «batteva» il tempo, anzi, rifuggiva la scansione ritmica fino a confidarmi che il suo ideale sarebbe stato quello di «dirigere senza dirigere». Neppure le parole di questi tre grandi protagonisti della direzione d’orchestra riescono a rispondere veramente alla domanda. Certo è che oggi, nella società dell’immagine, in un contesto culturale in cui a prevalere è il canale visivo, si è purtroppo portati a confondere il direttore d’orchestra con l’esteriorità del gesto con l’essenza del dirigere, quindi a credere che una gesticolazione ampia, agitata, talvolta convulsa (o clownesca) sia espressione di temperamento, di passione, di adesione alla musica. Niente di più sbagliato.
Quando il direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella, Jacopo Napoli, mi propose di provare a dirigere, non lo fece certo pensando a come avrei potuto muovere le braccia, ma perché ascoltandomi suonare il pianoforte aveva forse colto un approccio «sinfonico» alla pagina musicale, una certa forma mentis… Che poi il gesto, fin dalle prime esercitazioni, mi venisse piuttosto naturale, non fu altro che la base per cominciare lo studio vero e proprio: innanzitutto composizione. Perché lo studio della composizione è uno dei fondamenti della direzione d’orchestra, forse il più importante: è ciò che ti consente di analizzare la partitura dal punto di vista dell’autore. Soprattutto se si tratta di studi «all’italiana», che se fatti seriamente sono i più efficaci al mondo: quattro anni di armonia, tre di contrappunto, tre di strumentazione e orchestrazione. E lo studio del pianoforte: saper dominare la tastiera è fondamentale per l’analisi dei brani, ma anche per lavorare con padronanza insieme ai cantanti. Se poi si conosce anche la tecnica degli strumenti ad arco, come è accaduto a me che per la prima volta ho avvicinato la musica studiando violino, per cinque anni, allora il rapporto con l’orchestra si fa ancora più diretto.
Insomma, per diventare direttore d’orchestra bisogna prima diventare un musicista vero. E lo si può fare solo attraverso uno studio lungo e severo, di cui quello dedicato al movimento delle braccia non è che una piccolissima parte.
Ricordo che, una volta ammesso alla classe di direzione di Antonino Votto, al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, il maestro, dando il via alle lezioni riassunse a noi allievi i gesti fondamentali, il 4/4 si batte così, il così, il 2/4 così e via dicendo… poi, quasi sorridendo, disse: «Il corso è finito!». E aggiunse che come iniziare, per esempio, la Quarta Sinfonia di Brahms, con quel famoso, inconfondibile levare, con quale suono, quale timbro e peso, quale intenzione… sono cose che non si possono insegnare: ognuno di voi, disse, lo troverà in sé stesso e fino a quando «non vi romperete il naso» (disse proprio così) di fronte all’orchestra, non lo imparerete mai. A confermare appunto che il direttore deve essere per prima cosa un musicista vero e che le braccia sono semplicemente un mezzo, che ognuno usa in modo diverso, e che mai debbono diventare un fine.
(…) Io conservo la memoria dei grandi che ho visto dirigere alla Scala, negli anni di studio a Milano, oltre allo stesso Votto, Herbert von Karajan e Gianandrea Gavazzeni, e prima a Napoli Ugo Rapalo, docente nel conservatorio di quella città… Tra tutti poi ricordo Francesco Molinari Pradelli, insuperabile interprete verdiano.
È ovvio che un giovane direttore, all’inizio della carriera, sia più concentrato e presti maggiore attenzione alla prima e rudimentale fase del battere il tempo con le proprie mani, cercando così di «tenere assieme» l’orchestra. Poi però con gli anni e la presa di coscienza delle proprie possibilità, ci si libera del gesto, che diviene un fatto naturale, e ci si accorge che meno si inquadra l’orchestra in una dimensione ritmica rigida più si riesce a piegarla alle proprie intenzioni interpretative: perché, appunto, dirigere non significa semplicemente irreggimentare l’orchestra e farla andare a tempo, significa invece prepararla a seguire o, meglio, a condividere attraverso un’analisi attenta e motivata un’idea di interpretazione.
Riccardo Muti, Il Corriere della Sera, 19 maggio 2019
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