Recensione sull’Australian World Orchestra: “Raccogliere i frutti, ma anche gettare il seme”

“La musica unisce i popoli”, ha fatto notare il direttore Riccardo Muti durante un breve discorso sul podio prima del bis.

Ad essere più specifici, quella sera (come negli ultimi sette anni) ha unito nell’AWO (Orchestra Mondiale Australiana) una diaspora di musicisti australiani espatriati provenienti da circa 35 orchestre in Europa, Regno Unito, Stati Uniti, Asia e Australia: una sorta di campo annuale per adulti o, per dirla con le parole di Simone Young: “l’Orchestra Giovanile Australiana con le rughe”.

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L’approccio di Muti alla Sinfonia n. 2 in Re Maggiore, Op. 73 di Brahms ha rifuggito accenti effimeri, agitazioni e momenti transitori di eccitazione, in favore di un’esecuzione magistrale dell’essenza e dell’architettura proprie dell’opera. L’apertura del primo movimento è stata un dolce risveglio attraverso una quiete indisturbata che ha condotto poi a un secondo tema dal fraseggio elegante. Il ritmo disciplinato ma estremamente calmo, senza fretta, che permette alla freschezza delle combinazioni orchestrali di Brahms di emergere con raffinatezza discreta, quasi sottovalutata.
Anche il movimento lento è stato prolungato, forse eccessivamente, lasciando che fosse il terzo movimento a scoprire momenti di imprevedibile splendore e dalla forma sottile e aggraziata, prima che il finale spalancasse le porte al vero fulgore della giornata.

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Nella Sinfonia n. 4 in Fa minore di Čajkovskij, il riserbo classico è stato messo da parte per permettere alle frasi di agitarsi, emergere e impennarsi con un apice finemente risoluto che culmina nel fatidico motivo di apertura delle trombe. L’espressività apertamente romantica degli archi […] del primo movimento non ha mai annebbiato la chiarezza di idee.

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Il bis, Ouverture del Nabucco di Verdi, con il suo grande inno all’unificazione italiana, Va’ Pensiero, ha richiamato anche il dono continuo dell’Italia alla cultura australiana, attraverso la migrazione, l’affinità di spirito e attraverso la musica.

Liberamente tradotto da The Sydney Morning Herald (originale di seguito)

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Riccardo Muti e l’Australian World Orchestra: Un concerto inebriante e una rassicurazione eloquente della posizione di spicco dei musicisti australiani nel mondo.

Da quarant’anni Riccardo Muti lascia (elegantemente) il segno tra sale da concerto e teatri dell’opera da Milano a Philadelphia. La prospettiva di vederlo e ascoltarlo dirigere una reunion di ciò che dev’essere la più grande diaspora di talenti del mondo musicale dà certamente un brivido. Il programma, almeno sulla carta, sembrava una scelta convenzionale senza particolari ambizioni: la Seconda di Brahms e  la Quarta di Čajkovskij. Eppure, osservando con maggior attenzione, suscitava molto più interesse. Entrambe le opere potrebbero essere definite Romantiche, composte virtualmente nello stesso momento, da compositori anch’essi praticamente coevi. Eppure Brahms e Čajkovskij erano agli antipodi sia dal punto di vista emozionale, sia idiomatico.

 Muti era un Giovane Turco, succeduto a Klemperer nel ruolo di Chief Conductor della leggendaria Philharmonia di Londra. Rinomato per la precisione ritmica, l’intensità italianizzante e l’attacco a frustata, fra altre qualità. Solo un musicista della levatura di Muti poteva unire quasi cento musicisti che normalmente suonano in una vasta gamma di ensemble musicali con requisiti stilistici diversi in un insieme non solo fattibile, ma anche virtuosistico. Vivere la sua lettura del primo movimeno di Brahms è stato affascinante: in ciò che dev’essere sicuramente il suo movimento sinfonico più solare […] Muti ha eseguito una delle performance più tranquille che abbia mai sentito. Languorosa e lussureggiante, ma mai accondiscendente o fiacca.
Da questa musica non si può “scappare” e ogni sezione ha prosciolto se stessa in maniera nobile. Significativa la scelta di Muti di includere il ritornello dell’esposizione, che – come il suo equivalente nell’ultima Sonata per pianoforte D. 960 di Schubert – riequilibra l’intero movimento e a questo tempo la rende lunga tanto quanto i tre movimenti successivi insieme. Una volta ascoltato il ritornello in un’esecuzione di questo calibro, qualsiasi altra esecuzione che ne sia priva suonerà troncata. L’unica traccia di malinconia proviene dal movimento lento della Sinfonia, in cui si sono contraddistinti violoncelli e fagotti, e in generale i legni sincopati. Nel terzo movimento, l’oboe pastorale ha contribuito a graffi sonori meravigliosi. Le successioni spumeggianti del movimento finale sono state una gioia per le orecchie, con l’intera orchestra unita nel canto di un trionfo conclusivo.

Nei tardi anni ’70 e ’80 Muti ha prodotto un ciclo čajkovskijano con la Philharmonia che, quarant’anni più tardi, è ancora tenuto in alta considerazione. Questa occasione ha dimostrato che il direttore non ha perso niente di quell’energia o di quello stile. Ha dato dimostrazione di una padronanza magistrale della vitalità musicale: come stabilirla e variarla nelle soventi convulsioni nevrasteniche, conflitto e subbuglio spirituale del complesso primo movimento.
Il “motivo” del tema di apertura della tromba è stato eseguito in maniera curiosamente legata, ma con sfrontata insistenza (e così è stato ogni volta che si è ripetuto per tutta l’opera). Nel secondo movimento, l’oboe solista in particolare è stato splendido. Muti ha eseguito un ritardando enorme alla fine, ma ha funzionato. Nel pizzicato del terzo movimento, gli archi meritano una menzione speciale, così come i legni e gli ottoni nelle loro interiezioni piccanti. La gaiezza frenetica del “Balletto russo” del movimento finale ha portato grande energia e dramma, pur non riuscendo, per tutto il tempo, a scacciare l’immagine della “Spada di Damocle” sopra la testa del compositore.

È uno dei concerti più entusiasmanti a cui abbia partecipato da tanto tempo e un’altra eloquente garanzia della posizione di spicco ricoperta dai musicisti australiani nel mondo.

Liberamente tradotto da Limelightmagazine.com.au (originale di seguito)

* Articoli originali *

AWO review: Gathering the harvest but also sowing the seeds