Con l`indice alzato come una bacchetta, Riccardo Muti socchiude gli occhi e cita a memoria: «…una melode che mi rapiva sanza intender l`inno». È Dante, Paradiso, canto XIV. Il Sommo Poeta riposa a cento metri dal silenzioso giardino di limoni della casa di Ravenna dove incontro uno dei più grandi direttori d`orchestra viventi. «Quel verso dice tutto della musica. La musica è rapimento, non ragionamento. Dietro la forma delle note c`è solo l`infinito, e l`infinito non si può spiegare con le parole». Rimango interdetto. Tra i grandi musicisti della nostra epoca, Muti è forse quello che più si è speso per insegnare ad amare la musica. L`ultima bruciante passione della sua vita è l`Orchestra giovanile Luigi Cherubini, scuola d`eccellenza per promesse della musica d`insieme, che proprio stasera inaugura il Festival di Pentecoste di Salisburgo con un`opera che fa parte di uno straordinario progetto per il recupero della musica del Settecento napoletano. Nelle sue lezioni concerto, Muti è maestro due volte: spiega, interrompe, parla tantissimo. Insegna.
Come si concilia la didattica con l`estasi, maestro?
«La musica è inspiegabile. In ultima analisi, incomprensibile. Ma è possibile insegnare come aprire le porte al “rapimento”. Si può e si deve. Insegnare la musica ai giovani è un dovere etico».
Piuttosto disatteso. Poche decine di ore in un`intera carriera scolastica.
«Le colpe non sono solo di chi governa la scuola di oggi o dì ieri. Bisogna andare indietro per capire come mai la nazione con la più grande storia della musica, il Paese che con Guido D`Arezzo ha dato il nome alle note, che con Corelli ha inventato la forma concerto, che con la Camerata de` Bardi ha inaugurato il melodramma, che con Stradivari e Guarnieri ha fabbricato gli strumenti più fiabeschi del mondo, ha finito per recidere le sue radici».
Indietro quanto?
«All`Ottocento, quando il successo travolgente del melodramma emarginò gli altri generi musicali. Un genere nazional-popolare che ha prodotto oggetti musicali eccellenti, ma ha finito per deprimere la qualità delle orchestre, cacciate nella “buca”, spesso più “fossa` che “golfo mistico”. Da allora la musica italiana è diventata una performance quasi sportiva, col tifo dei loggioni, il divismo dei cantanti. E nelle scuole, tutti a cantare Ve` pensiero fino allo sfinimento».
Lo cantò anche il giovane Riccardo Muti?
«Certo. Ma non sarei mai diventato musicista se avessi fatto solo quello. Fortunatamente, per mio padre, medico di Molfetta con una splendida voce da tenore, conoscere la musica era un obbligo morale. Ci obbligò tutti, noi cinque fratelli, a studiare altrove quello che la scuola non ci avrebbe mai insegnato. Io sono diventato direttore d`orchestra, i miei fratelli no, ma grazie a nostro padre siamo tutti persone migliori».
E chi non ha un papà come il suo?
«Rischia di uscire dal liceo classico sapendo chi sono i poeti minori del Seicento, ma senza avere mai ascoltato, per non dire capito, Mozart».
E mai toccato uno strumento.
«Guardi, la stupirò: per amare la musica non è necessario saperla suonare. Forse che riesce a godere Shakespeare solo chi scrive tragedie? Credo che la didattica di base della musica, negli ultimi decenni, sia stata volonterosa ma fondamentalmente sbagliata. Diciamo la verità: certi infami pifferi messi a forza tra i denti degli scolari, con quegli strazianti miagolii che si sentono a volte uscire dalle finestre delle scuole, finiscono per farla odiare, la musica, a un ragazzino. Non credo neppure che sia necessario insegnare a leggere lo spartito, un esercizio tecnico dispendioso e inutile per chi poi non farà il musicista di professione».
Allora, che fare?
«Le racconto cosa faccio io. A Lugo c`è un bel teatro, il Rossini. Ci sono andato con la Cherubini per le prove della Jupiter di Mozart. Sinfonia difficilissima, inizia catturandoti con dolci lusinghe e termina nella metafisica più pura. Ho scelto di fare qualche ora di prove aperte, invitando tutto il paese. Parlavo, spiegavo, facevo esempi. Alla fine c`è stata un`ovazione di gratitudine sincera: di chi improvvisamente ha scavalcato un muro ed è arrivato a cogliere il piacere della musica».
Vede allora che si può spiegare.
«Spiegare no, ma si può condurre. lo mi sento come l`architetto che descrive l`edificio, mostra la mappa, apre le porte delle stanze: ma è il visitatore che deve abitarci».
I ragazzi preferiscono abitare gli stadi del rock che i teatri della sinfonica.
«I ragazzi che girano per strada con gli auricolari spesso ascoltano cose molto complesse. Non è la presunta “difficoltà” della musica colta a tenerli fuori dai teatri. Molte volte è una ritualità che noti s`è mai rinnovata. Quanto vorrei che finissero certe liturgie, l`applauso, gli abiti scuri, l`ingresso sul palco dei “pinguini” col capo pinguino… Sogno concerti dove i musicisti, vestiti come i loro ascoltatori, spiegano e condividono ciò che stanno per fare, un concerto senza sacerdoti separati dai fedeli, un concerto dove tutti siano concelebranti…».
Il Concilio Vaticano II della musica…
«Ma con rigore, rispetto, e sforzo: perché ascoltare musica non è udire un sottofondo, è affrontare un viaggio intellettuale ed emotivo». Che cosa pensa delle «contaminazioni» tra rock e classica? Avvicinano i ragazzi? «Allontanano. Ho sentito, mi pare al Festival di Sanremo, un`orchestra classica suonare Mozart assieme a un gruppo pop, ma di quel brano è rimasta solo una pallida superficie di note che può andar bene per uno spot televisivo. Una sinfonia non è una linea melodica, è un`architettura dove tutto dipende da tutto, togli un mattone e crolla».
La lirica negli stadi?
«Non so se i Tre tenori e cose simili abbiano allargato il pubblico della musica, ma non credo l`abbiano comunicata. Quei recital sono condensati di arie celebri, una dopo l`altra, come cioccolatini; strappano applausi, ma un pranzo fatto solo di dessert finisce per disgustare. Un`opera è un apparato complesso, fatto di densità diverse, l`aria esplode al momento giusto, non la puoi strappare come un fiore dall`albero».
Cosa resta? La tivù?
«Vuole dire quei concerti-sonnifero trasmessi alle tre di notte, per assolvere un dovere?».
Non ci sono molti altri luoghi dove un teenager possa imbattersi in Bach o Mahler.
«Non ci sono più. L`Italia è un Paese pieno di teatri chiusi. I teatri costano, ma qualcuno si domanda cosa abbiamo perso? A pochi chilometri da qui, a Piangipane, c`è un teatrino delizioso. Ci sono andato alcune volte, è una bomboniera. Sa chi lo costruì? Una cooperativa di braccianti, nel 1921. Consideravano importante ascoltare musica, dopo una settimana di lavoro duro. E le chiese? Provi a entrare in una chiesa inglese, o austriaca: ascolterà splendida musica sacra eseguita con grande dignità. Entri in una chiesa italiana: la nostra moderna musica liturgica è uno strazio da urlatori e stonatoni. E le bande musicali? Sparite quasi tutte, erano l`educazione musicale più bella e diffusa, ed erano anche una culla della società, perché suonare in orchestra è disciplina e consonanza, è uno sforzo di etica della socialità, lo stesso che cerco di realizzare con la Cherubini. Come vede, non ho un concetto quaresimale della cultura musicale. A Delianuova, in Aspromonte, è nata una banda musicale per mettere in mano ai ragazzi uno strumento a fiato invece che a canne mozze: ma non l`ha fatta il Comune o lo Stato, l`hanno fatta due privati. L`ho portata al Ravenna Festival e l`ho diretta di persona. Mi chiede come fare incontrare la musica del passato con i giovani? Ecco come. Con uno sforzo della volontà».
Ma chi lo deve fare?
«Uno Stato, un Paese civile, chi altri? Altrimenti ogni sforzo personale, anche il mio, è inutile. L`insegnamento della cultura musicale, in Italia, è un sacco pieno di buchi: tu versi, ma il contenuto si perde. Le toppe non servono. Ci vuole tutto un altro sacco. Ma non lo possono cucire né i bacchettoni né i dilettanti».
Michele Smargiassi, Il Venerdì di Repubblica, 29/05/2009
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