Ci sono delle esecuzioni che sparigliano tutti i luoghi comuni, esaltando la funzione primaria della musica: l’anti-convenzionalità. Ad esempio, si pensa che per esaltare le qualità di un grande direttore sia necessaria un’orchestra di pari livello, per tenere il dialogo alla pari. Oppure che di fronte a una formazione di giovani, il podio che li guida detenga il ruolo di anziano, ossia di esperto: freno, guida, riparo. Ecco, dopo il concerto di Riccardo Muti alla testa della sua Cherubini, al LAC di Lugano, domenica scorsa, terminato con un diluvio di applausi (e altrettanta acqua fuori), sotto i fulmini e la tempesta pensavamo all’effetto sorpresa di questo impaginato Verdi-Schubert-Ciaikovskij. Fatto di incredibile fantasia di invenzione, di equilibri sulla scrittura calibrati proprio per esaltare la natura fresca dei passi solistici; e ancora di giochi trascinanti, su tre stili, tre personaggi completamente diversi: Verdi affilato, tagliato con l’acciaio; Schubert mormorante, conversativo, con infaticabili ritornelli; e Ciaikovskij passionale e tragico, ma mai sentito tanto serbatoio di idee per il Novecento russo. Con un finale della “Quinta” rabbioso e battuto con arcate nette, veloci, al centro; “fauve”, quasi fossero quei piedi pestati a terra che Stravinskij avrebbe poi voluto nella “Sagra”, abolendo per sempre il balletto ben educato sulle punte.

Muti parte sempre da un nitore classico di impostazione. Detesta la sciatteria e il disordine, nelle sue orchestre. E lo vedi subito, anche nei Cherubini, che sfoggiano una disciplina nelle file da maestri. E suonano in grande organico (si va dagli undici contrabbassi, in crescendo), tanto da riempire fino agli orli il palcoscenico del LAC, la nuova sala da concerti, nel centro culturale di Lugano, raccolta e a imbuto, con acustica pronta nella risposta, generosa (e a due passi, anzi pochi gradini in discesa, molto comoda dalla stazione).

Questo rigore è necessario, perché non è solo una formalità. È un abito interiore. Una scuola. Oggi sempre più un segno caratteristico, che fa la differenza – anche visiva – tra un’orchestra e l’altra. Chi pensa che la cosiddetta libertà aiuti, sbaglia. In una squadra non si tratta di libertà, ma di forze unite, che solo dal respiro comune diventano un assieme. Non a caso, così ben plasmati, i Cherubini possiedono un suono, ricco di affondo. Accanto ai solisti, alle prime parti, che sono eccezionali: la prima tromba, il clarinetto, il timpano, il primo corno. Alcuni sono ragazzi, poco più che bambini, col ciuffo dei capelli in aria, l’aria soddisfatta da cuccioli, quando hanno finito il passo scoperto, pericoloso, dove tremano anche le grandi orchestre. E sono tutti italiani. Senza campanilismo, ma per valorizzare le nostre che sono ancora ottime scuole, i Conservatori, con tradizione di alto insegnamento. I vari Baratin, Betti, Faggiani, Fracchia, Nuzzaco, Micciulla, Girotto, Nidi, Zorino, Ciampa, Rauli, Caldarola, Bottet, Mazza, su su fino alla spalla, la solida Adele Viglietti, rispondono tutti all’appello con un “sì”. Incarnano la nostra espressione simbolica migliore.
Certo, hanno bisogno di Muti. Su questo non si discute. Finiranno poi alcuni di loro nelle orchestre importanti, perché tre anni di formazione di questo segno lasciano un’impronta indelebile. Però al momento in cui arrivano, qui, selezionati da un’infaticabile ruota di audizioni, non hanno esperienza di squadra. Zero. Perché nelle nostre scuole (è il loro tallone d’Achille) l’assieme si pratica meno, rispetto all’estero. Dunque la formazione parte dall’ABC, da quei principi che la bacchetta di Muti conosce e difende come un paladino. E non solo quando è sul podio coi ragazzi. La solidità, l’efficacia, la naturale bellezza musicale creata da questa grammatica dà ali alla musica. È la sola a permettere la vera libertà di un’interpretazione.
Così il ribattuto selvaggio, che lievitava, e raddoppiava nella ripetizione, dell’Allegro vivace finale di Ciaikovskij diventava un passo di virtuosismo collettivo. Il tema del disegno del clarinetto, lasciato alla fine letteralmente stemperato, come una voce, in mezzo agli archi, era uno squarcio di un “assolo”. Il corno, con la sua fascinosa, ampia, spaziata perorazione, assomigliava all’entrata di un cavaliere, aristocratico e circondato da un’orchestra che non lo accompagnava (troppo banale!) ma gli si inchinava intorno, stendendogli un tappeto colorato, lasciandogli spazio. Molto bravo il cornista. E si sa che su questo passo cascano in tanti. E non è una tragedia, perché si sa quanto sia pericoloso. Ma è un pugno all’ascolto. Che bellezza quando invece tutto sta miracolosamente in equilibrio, ed è quasi un miracolo. Muti non guardava il leggio, non lo ha mai diretto, salvo l’entrata. Lo ha lasciato intenzionalmente solo, anche in qualche minima morbidezza ritmica. Ma quanta presenza c’era in quella libertà. Quanta fiducia. E quanto indimenticabile il minuscolo cenno del capo, a fine passo, per dire al giovane un impercettibile, glorioso: “bravo”.
Grazie all’acustica del LAC, finalmente abbiamo sentito con un diverso spessore anche gli archi della Cherubini. Che nella “Quinta”, voluttuosi e densi, e nella “Quarta” schubertiana, coi disegni ritmici tanto ben disegnati, a pastello, suonavano con autentico piacere. Forse anche, finalmente, di potersi sentire tra di loro, anche a leggii lontani. Come non accade spesso nelle nostre sale da concerto. E mai sui palcoscenici dei nostri teatri, che non sono nati per la musica sinfonica. La Sinfonia del “Nabucco” esaltava proprio la natura anche squisitamente orchestrale di Verdi: tagliata a blocchi, ben netti nel carattere, come le facce di un prisma. Presentata non come uno zuccherino di apertura, per far crogiolare il pubblico sui temi tanto noti, dondolandosi sul “Va’ pensiero”, ma con la determinazione di porgere una pagina assoluta, di costruzione essenziale e perfetta. Moderna e italiana, nel senso più nobile. Avrebbe potuto essere un bis. Anzi, il bis per eccellenza. Collocata in apertura diventava invece un manifesto. A quel punto poi, alla fine, nonostante gli applausi ritmati, le infinite chiamate, l’entusiasmo, niente dessert. Tutti a casa, con quel diabolico Ciaikovskij, nero come i contorni di Picasso, nel cuore.

Carla Moreni, Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2017