Dopo 12 anni nella sala del Piermarini, Riccardo Muti con l’Orchestra di Chicago. Appuntamento il 20 e 21 gennaio. «Sono felice di ripresentarmi al pubblico di Milano»

Se ne parla da un anno, del ritorno di Riccardo Muti alla Scala. Il 20 e 21 gennaio ci sono i suoi due concerti con la supercorazzata americana (e una delle prime al mondo) chiamata Chicago Symphony Orchestra (Cso). Il sovrintendente Pereira spera che sia il prologo per il ritorno di Muti con un’opera a Milano, nel teatro che diresse per 19 anni, fino al 2005. Muti fa trapelare il titolo di cui si parla: La Forza del destino del suo amato Verdi. È un «corteggiamento» in attesa di una risposta, che ha avuto la prima pietra con la mostra in giugno al museo della Scala, per i 75 anni del maestro. Il numero magico è 7. Sono le città che tocca la tournée europea della Cso, e sono gli anni trascorsi da quando Muti ne prese la guida. Debutto ieri a Parigi, poi al Musikverein di Vienna, nel gioiello di Baden-Baden, ad Amburgo dove per la prima volta un’orchestra internazionale sarà nel nuovo Auditorium. Ma è Milano a cui guarderanno tutti, per i ricordi e le speranze.
Maestro, con che stato d’animo dirigerà alla Scala?
«Non c’è uno stato d’animo particolare, anche quando vi tenni il mio ultimo concerto, nel 2005 con i Wiener Philharmoniker, pensai al fatto musicale. Certo torno nella sala in cui sono stato direttore musicale per quasi vent’anni, e prima ancora ricordo l’Ernani, Le nozze di Figaro con Strehler, i concerti negli Anni 70. È un pezzo importante della mia vita che ho trascorso in quel teatro, quando vi passai per la mostra ho sentito aria di casa, è normale. Questi due concerti fanno parte di una tournée europea».
Pereira la sta marcando a uomo…
«Mi è molto vicino in questo periodo e continua la sua azione di convincimento per un’opera, dipenderà dal tempo a disposizione. Sono felice di ripresentarmi al pubblico milanese con la mia famiglia musicale. Ma non ci sono nostalgie. Il pezzo d’apertura è Contemplazione di Catalani, è un omaggio a Toscanini che fu grande amico di questo compositore morto molto presto, a 39 anni. Non è un pezzo per impressionare il pubblico con i fuochi d’artificio. Ha scritto La Wally, che debuttò alla Scala nel 1892 e proprio il 20 gennaio. È un’opera che un giorno spero di dirigere».
Dopo sei anni tornerà a dirigere un’opera in forma scenica a Salisburgo.
«Sì, in agosto, Aida, e sarà la mia unica opera nel 2017. Shirin Neshat è la regista giusta: approfondirà il rapporto psicologico tra Aida e Amneris, lo scontro tra diverse culture e razze così attuale, al di fuori del trionfalismo. Perché è un capolavoro intimista».
È una regista iraniana, Paese che lei…
«Per il Ravenna Festival, porteremo il concerto Le vie dell’amicizia a Teheran».
Filarmonica di Chicago: come si concilia la tradizione dell’Orchestra con un lavoro personale?
«È d’impronta germanica, il fondatore è stato Theodor Thomas, un tedesco, così come molti dei suoi primi componenti; una volta i programmi si facevano in quella lingua. Se quella di Philadelphia, che ebbi in gioventù, si connota per la sensualità del colore degli archi, Chicago (la città è gemellata con Milano) ha il vigore e la potenza dei suoi ottoni, che gli viene dagli anni di Solti. Prima c’era stato il grande Fritz Reiner: ho commissionato a una scultrice ungherese il suo busto all’ingresso del teatro. Abbiamo suonato nelle carceri giovanili, cercato di avvicinare comunità lontane dalla cultura musicale… Non bisogna violentare l’anima di un’Orchestra, non ho tolto nulla: ho creato più equilibrio tra le sue varie falangi, e dato un respiro italiano (ricordo le opere verdiane in forma di concerto) che ha portato flessibilità e cantabilità. C’è oggi una specie di luce italiana».
Chicago è la città del presidente uscente Obama. Come sarà l’America di Trump?
«Non lo conosco, leggo i giornali, che gli sono contro. Ho seguito i suoi accesi incontri con Hillary Clinton. È difficile dare un giudizio. Spesso queste persone si rivelano delle sorprese, in positivo. Di Ronald Reagan si disse: il mediocre attore diventato presidente, e oggi è considerato uno dei migliori. Certo né Trump né la Clinton hanno mai pronunciato la parola cultura. È un problema allarmante. Inutile ripetere il solito ritornello. Ma se si alza il livello culturale, c’è una migliore possibilità di comprensione tra la gente».

Articolo di Valerio Cappelli, Corriere della Sera – 13 gennaio 2017

Photo Todd Rosenberg