Riccardo Muti e la forza della musica: “E’ una necessità dello spirito”

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Riccardo Muti e la forza della musica: “E’ una necessità dello spirito”

Aneddoti, riflessioni, racconti, esperienze e l’amore per l’Italia. Il maestro sul palco dell’Auditorium per un lungo e molto applaudito incontro. “L’ignoranza della musica è ignoranza delle proprie radici e senza radici la pianta muore”

La platea della sala Sinopoli all’Auditorium Parco della Musica è gremita per il ritorno pubblico a Roma di Riccardo Muti, non sul podio ma per un incontro, uno dei più attesi e importanti di RepIdee 2016. Un filmato del maestro sul podio della Chicago Symphony Orchestra, la prestigiosa orchestra, una delle prime al mondo, di cui è music director fino al 2020, nel Requiem di Verdi, ha aperto stasera l’incontro che Muti ha da subito galvanizzato con battute (“Cosa c’entra parlare dei miei 75 anni con il Requiem”) aneddoti, riflessioni, racconti e esperienze del suo “ricchissimo percorso pluridecennale” come ha sottolineato la giornalista Leonetta Bentivoglio, che lo ha intervistato e ha dialogato con lui, presentandolo “come l’Italia dell’arte, senza retorica, l’Italia come radice sana e condivisa.
Ha parlato di musica il maestro, spesso sottolineando come l’Italia sia indietro, e spesso indifferente alla musica stessa. “C’è un disinteresse antico verso la musica,una parte portante della nostra storia. In Danimarca l’insegnamento della musica è un articolo della Costituzione. La musica è una medicina dell’anima. Ed è un apprendimento del vivere sociale: nell’orchestra specificità diverse devono convergere tutte sullo stesso punto. Ai bambini si insegna a cantare “l’elmo di Scipio” e si chiedono: ma chi era ‘sto Scipio?”

L’insegnamento della musica, continua il maestro, “è fondamentale per una società. Abbiamo dato noi i nomi alle note, abbiamo creato gli strumenti più straordinari, abbiamo inventato l’opera che è il pane quotidiano di tutto il mondo, con Respighi, Malipiero, Petrassi abbiamo dato un contributo al sinfonismo. Dobbiamo riprendere questo cammino. L’ignoranza della musica è ignoranza delle proprie radici e senza radici la pianta muore. Scusate se sembra che mi accalori, ma io credo in questo paese, credo che potremmo essere il più straordinario al mondo, non rispettati per quello che siamo stati ma per quello che siamo”.

Nel corso dell’incontro Muti ha ripercorso gli inizi: Molfetta, il padre medico che riteneva che la musica andasse studiata. “Così mi sono trovato un astuccio nero in mano, era un violino e lì ho capito che cominciava la mia via crucis. Tale è stato il rigetto per il solfeggio che per due o tre mesi io non leggevo le note non perché fossi deficiente ma perché non studiavo. Gli insegnanti dicevano che ero negato. Fu mia madre, napoletana, a dire chissà perché ‘proviamo ancora un mese’. E in quel mese qualcosa è successo. Ho iniziato a leggere le note e in pochi mesi facevo il mio primo concerto. Debuttati al seminario pontificio di Molfetta come violinista”.

Accolto a ogni riflessione da molti applausi, Muti ha sottolineato l’importanza per un direttore d’orchestra dello studio della composizione, della conoscenza dello strumento a fiato e degli strumenti ad archi. “Oggi chi ha problemi dirige, chi non ha la voce dirige, chi non sa suonare dirige. Uno svilimento della professione”. Per questo è fondamentale insegnare la musica ai giovani e ai bambini. “Nei Conservatori italiani si diplomano centinaia di ragazzi. Nella stessa Orchestra Cherubini che io ho creato, i ragazzi non ce la fanno e vanno a fare altri mestieri. Nei Conservatori studiano oltre dieci anni e poi non trovano lavoro. Sono tornato dalla Corea dove ci sono 30 orchestre. E da noi? Al Sud non ci sono teatri. Se vuoi fare musica la ascolti nei dischi, perché anche la Rai non mostra grandi attenzioni. Bisogna cambiare, e cambiare molto”, ha detto Muti che ha voluto concludere con un aneddoto e un filo di speranza: “A Chicago di fronte al teatro c’è l’Art Museum, quando esco e vedo di fronte scolpiti i nomi Michelangelo, Raffaello, mi sento orgoglioso. Io vengo dal loro stesso paese, mi dico. C’è la fierezza di essere italiani che non è nazionalismo stupido, ma la fierezza di appartenere a una lunga e bella storia. Per questo chiudo con un aneddoto: subito dopo la guerra l’ambasciatore americano era andato a Firenze a trovare il sindaco La Pira, il quale lo accolse così: ‘Ambasciatore, disse, prima che lei parli le dico che questo tavolo era qui, prima che noi scoprissimo l’America”.

La Repubblica.it
2017-03-10T18:08:12+01:0009 Giugno 2016|Categories: Non categorizzato|
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